Duemila meno uno



di Diego Julio Vinicio Melendez


Era per una di quelle missioni particolari che di quando in quando gli venivano affidate, che Onorio Casales, un giorno come tanti altri, si era dovuto recare in visita a quel cantiere. Almeno, di un cantiere aveva tutta l’aria, per le numerose strutture dall’aspetto provvisorio sistemate qua e là. Anche se — pensò — si sarebbe potuto trattare altrettanto bene di una cava, oppure di una di quelle grandi miniere a cielo aperto. Aveva perso la cognizione di che ora fosse, la luce lattiginosa di quel sole perennemente basso sull’orizzonte non gli richiamava alla memoria nessun altro luogo conosciuto nel corso dei suoi viaggi.

A dire il vero, l’incarico non gli era piaciuto fin dall’inizio, e se avesse potuto se ne sarebbe assai volentieri tornato a casa. Forse era stato un errore decidere di partire, e tuttavia qualcuno doveva pur portare a termine quel lavoro, per quanto potesse risultare spiacevole, sporco e non privo di rischi. Date le circostanze, se ne rendeva conto, non c’erano molti altri disponibili a farsene carico.

Il primo degli automi era lì a due passi, stava armeggiando con qualcosa e non sembrava essersi accorto dell’avvicinarsi di un visitatore. Onorio sapeva di doversi muovere in fretta, senza lasciargli il tempo di reagire, le tute meccanizzate che proteggevano il loro corpo potevano sprigionare una potenza micidiale. Disse qualcosa, come per chiedere aiuto, e appena quello si voltò verso di lui, gli staccò i cavi dell’alimentazione che aveva sul torace.

La faccia, solitamente inespressiva, seppure con fattezze umane, accennò a una vaga sorpresa, ma Onorio sapeva che la mancanza di energia non era sufficiente, lo aveva solo rallentato, e presto si sarebbe ripreso. Agguantò quello che sembrava un fascio di listelli di legno o di tondini di metallo, casualmente appoggiato lì a portata di mano, e lo usò come un ariete per sfondare la visiera protettiva dello scafandro. Questa era a forma di calotta sferica, e doveva essere colpita esattamente nel centro perché l’impatto risultasse efficace. Al primo colpo s’incrinò solamente, e ne fu necessario un secondo per mandarla in frantumi. L’aria entrò, o forse uscì, e l’automa a poco a poco si spense, come se si addormentasse.

Con questo me la son cavata piuttosto bene — considerò, sospirando con sollievo, quando fu certo di averlo disattivato in modo definitivo — con gli altri però non sarebbe stato altrettanto semplice. Si guardò attorno con una certa apprensione. Il secondo si trovava a qualche distanza, in uno spazio aperto, e non sarebbe stato facile avvicinarglisi senza farsi notare. Onorio si acquattò dietro una pila di detriti per studiare la situazione. Da come quello si muoveva, non sembrava si fosse ancora reso conto di quanto era accaduto. Dannato lavoro! Ma recriminare non serviva a nulla. Era fondamentale concentrarsi — si ripeté — attendere il momento propizio, e quindi agire il più rapidamente possibile.

Proprio in quell’istante scoppiò l’urlo assordante di una sirena, e Onorio dovette in tutta fretta ripararsi le orecchie. Accidenti! Proprio adesso? — imprecò — Non ho ancora finito! Ma si sentì risucchiare e catapultare ad anni luce di distanza. Fortunatamente atterrò in quello che sembrava il suo solito letto. Le coperte, che gli si erano avvolte attorno come un bozzolo, dovevano averlo protetto nella caduta. Riuscì a estrarre un braccio, e si protese a spegnere la sveglia. Poi si raggomitolò, rivoltandosi sul lato opposto, e mentre risprofondava nel sonno si lasciò sfuggire un lamento: Maledizione… non avevo ancora… finito…

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