Hatawk, l’indiano



di Diego Julio Vinicio Melendez


Era già buio quando nel tardo pomeriggio, dopo essersi trattenuto in ufficio più a lungo del dovuto per completare alcune pratiche alle quali teneva in modo particolare, Onorio Casales aveva fatto una breve deviazione dall’abituale tragitto verso casa per recarsi alla biblioteca comunale, dove intendeva reperire alcuni testi che gli era necessario consultare per una certa sua personale ricerca filosofica.

La bibliotecaria lo conosceva bene — era tra i frequentatori più assidui — e lo salutò con un sorriso appena lo scorse entrare; al momento però sembrava impegnata in una conversazione con un anziano e distinto signore, pertanto Onorio non si fermò e si diresse invece senza esitare allo scaffale 156-Bar, ove sapeva, dalle sue indagini precedenti, esser collocata la prima delle opere che gli occorrevano.

Stava scorrendo i dorsi dei volumi, tutti diversi, quando notò alcuni fogli di carta giallastra, sporgenti di qualche millimetro dal bordo superiore di uno di essi, e incuriosito estrasse il libro dallo scaffale per osservarne la copertina. Era una copia rilegata in cartonato di L’élan vital di Bergson, e quelli che sembravano fogli di appunti vi erano stati lasciati all’incirca a metà, tra la pagina 156 e la 157. Qualcuno doveva averli dimenticati in mezzo al volume — pensò — era probabile che avesse dovuto lasciare la biblioteca in tutta fretta… o forse era stato distratto da qualcosa mentre riponeva il volume al suo posto, e non si era ricordato di prenderli con sé. Oppure no: potevano anche esser stati lasciati in quella posizione intenzionalmente, magari con l’idea di riprendere la lettura di lì a poco…

La grafia era meticolosa e alquanto regolare; qua e là rare cancellazioni e qualche correzione rivelavano incertezze nella stesura del testo. Era stata una mano maschile oppure femminile ad aver tracciato quelle linee? Onorio non riusciva a darsi una risposta. E tuttavia c’era qualcosa di singolare che a tutta prima ebbe difficoltà a definire. I fogli erano piegati in due per adattarli alle dimensioni del libro, e le righe scritte a mano erano dunque verticali, perpendicolari a quelle delle pagine stampate.

Fu solo dopo aver aperto i fogli ripiegati, e leggendo sulla prima riga della pagina più interna quello che sembrava un titolo: Hatawk, the old indian huntsman, che Onorio si avvide che l’intero testo era scritto in inglese. Insolito… molto insolito — commentò tra sé e sé — tanto più che, da quel che ricordava dell’opera del filosofo francese, poteva ragionevolmente escludere che l’argomento avesse qualche attinenza con i contenuti del volume. Magari l’appunto era stato inserito semplicemente come segnalibro — ipotizzò — oppure vi era stato nascosto per qualche recondito motivo?

Si stava chiedendo cosa fare di quei fogli quando le prime parole successive al titolo catturarono la sua attenzione: It was a very sad day when, many years ago — I was very young at that time… Non sembrava il modo di esprimersi di qualcuno abituato a scrivere in inglese; e sebbene non vi fossero veri e propri errori ortografici né di sintassi, tuttavia quella lingua pareva impiegata in modo inusuale, come per tradurre pensieri o ricordi formulati in un’altra lingua, dalla struttura e dall’andamento diversi. Con l’intento di sincerarsene, Onorio si spinse oltre nella lettura, e il racconto procedeva più o meno come segue.


Hatawk, il vecchio cacciatore indiano


Fu un giorno assai triste quello in cui, molti anni or sono — ero piuttosto giovane a quel tempo e non avevo ancora preso il mio primo coniglio selvatico — mi addentrai nelle montagne insieme al più anziano cacciatore del mio villaggio, che doveva insegnarmi come tenere nascosta la mia presenza alla selvaggina.

Le ombre della sera stavano discendendo. Il vecchio narratore si avvicinò alle fiamme e gettò uno sguardo alla gente seduta insieme a lui attorno al fuoco. Le loro tipiche facce indiane, illuminate nella semioscurità del crepuscolo, erano così stranamente simili a quelle vedute negli innumerevoli accampamenti in cui si era trovato ospite durante la sua vita da vagabondo. Lentamente scosse il capo e proseguì nel suo racconto.

La prima luce del mattino ci aveva trovati già in marcia per le colline, e il sole si era appena levato nel cielo senza una nuvola. Raggiungemmo la cima di una montagna dalla quale potevamo scorgere buona parte del territorio circostante.

All’improvviso il vecchio cacciatore, il cui nome era Hatawk, si arrestò con un’aria di sospetto, scrutando un punto oltre il fondo della valle, dove i miei occhi inesperti potevano distinguere soltanto una striscia di alberi rinsecchiti, forse — pensai — colpiti da un fulmine. Lentamente il vecchio si girò verso di me e disse, in tono alquanto misterioso: «La morte aleggia ancora laggiù!» Poi mi fece notare che sull’intero versante non c’era la minima traccia di uccelli o di animali che si muovessero.

Scivolammo in silenzio giù per il sentiero che discendeva nella valle. Ogni cosa era immobile. Giunti nei pressi degli alberi disseccati, trovammo un’ampia e profonda buca nel terreno. Tutto intorno era bruciato, persino la terra sembrava cotta e spaccata, evidentemente a causa di un grande calore. Il suolo era ancora tiepido. Ci avvicinammo all’orlo del cratere e scorgemmo, parzialmente conficcato nel terreno proprio al suo fondo, uno strano oggetto metallico, che ne sporgeva quanto la metà di un uomo. Sembrava fosse caduto da una grande altezza, e di certo era rimasto danneggiato nell’urto col terreno. Hatawk mi disse di attendere dietro il limite della buca e con molta cautela iniziò a scendere verso la cosa misteriosa. Non era ancora giunto a metà della distanza che una specie di bolla comparve a mezz’aria, al di sopra dell’oggetto metallico, e cominciò a crescere, sempre più rapidamente. Hatawk balzò subito all’indietro, si girò e cercò di arrampicarsi per tornare sui suoi passi, ma era troppo tardi. Lo vidi vacillare per un momento quando venne raggiunto dalla bolla, poi cadde e scomparve.

Proprio allora un forte vento mi travolse e mi gettò a terra in un turbine di polvere. Quando fui capace di rialzarmi, l’intera buca era svanita insieme a Hatawk, e i dintorni apparivano normali, come se niente fosse accaduto. Chiamai a lungo il vecchio cacciatore, ma non riuscii a trovarlo. Ero completamente solo nella valle silenziosa. Pensai di tornare subito alla tribù, ma nessuno dei sentieri sembrava quello per il quale ero giunto lì insieme a Hatawk. Camminai per ore e ore senza incontrare nessuno. Alla fine vidi due uomini e una donna scendere verso di me, con un asino carico dei loro fagotti, lungo un ripido sentiero sul fianco di una montagna. Il sole splendeva alto e abbagliante, l’aria era tanto riarsa da impedire il respiro; i due uomini portavano curiosi cappelli, larghi e rotondi, per proteggere le loro teste dalla luce e dal calore.

Mi affrettai verso i tre viandanti e mi offrirono subito cibo ed acqua, ma quando chiesi in che direzione fosse il mio villaggio si guardarono perplessi e mi risposero che non avevano mai udito il suo nome, per quanto conoscessero molto bene l’intero territorio. Dissero che stavano andando alla fiera di Tequetlán, il mercato più importante della regione, e mi invitarono a proseguire il cammino insieme a loro. Di sicuro in mezzo alla folla radunata per la fiera avrei potuto trovare qualcuno che sapesse dov’era il mio villaggio.

Avevano l’aria di gente normale che vive del proprio lavoro, eppure qualcosa mi rendeva inquieto, sospettoso. Benché, dall’aspetto, sembrassero provenire da lontano, parlavano perfettamente la mia lingua, ed avevano affermato di conoscere benissimo l’intera regione; era strano che non avessero mai udito nominare il mio villaggio. Per contro, non ricordavo di aver mai sentito parlare di una città chiamata Tequetlán. Stavo per rispondere che preferivo proseguire da solo per la mia strada in cerca della mia tribù, quando la donna mi pregò a gran voce di unirmi a loro, promettendo di darmi altro cibo. I suoi grandi occhi erano diventati luccicanti come due specchi che riflettevano la luce del sole su di me, fece due passi per avvicinarsi e all’improvviso cercò di afferrarmi con un balzo. Ma io fui più veloce, saltai di lato, e un attimo dopo stavo già correndo su per il fianco della montagna. Quando mi fermai senza fiato mi accorsi che, invece di inseguirmi, tutti e tre si stavano sbellicando dalle risate, gridando che il mio villaggio non era nella direzione verso cui stavo scappando, e che era meglio andassi con loro. Ero così spaventato che mi allontanai più velocemente che potevo, e dopo quell’incontro continuai a vagare alla ricerca del mio paese.

L’anziano narratore rimase in silenzio. Sembrava fissare, attraverso le fiamme, lontane e tristi rimembranze. Gli ascoltatori seduti attorno al falò si guardarono l’un l’altro. Era una storia ben difficile da credere, quella che avevano appena udito. Un giovane cacciatore si sporse in avanti, i suoi occhi scintillarono riflettendo la luce del fuoco, e con un’ombra di malizia chiese: «E quanto ci è voluto, poi, per tornare alla tua gente?»

Il vecchio distolse il suo sguardo dalla fiamma. «Non li ritrovai mai più» — rispose, fissando in volto il giovane cacciatore — «e adesso so che tutti quanti scomparvero insieme a Hatawk quel giorno, ed io entrai in un mondo diverso».

— § —

Queste erano le ultime parole, scritte sul retro dell’ultimo foglio. Giunto quasi senza volere alla fine del racconto, Onorio sentiva una strana commozione, una sorta di struggimento, come se egli stesso avesse potuto scrivere quella storia, fors’anche in una vita precedente. Chi poteva mai essere l’autore di quello scritto? Chi era il vecchio narratore? E chi era, o era stato, Hatawk, il maestro di caccia così imprevedibilmente scomparso nel nulla?

Già, ma intanto, cosa fare di quegli appunti? Consegnarli alla bibliotecaria? Oppure portarseli a casa? Per farne che, poi? Forse era meglio lasciarli dove li aveva trovati, magari il misterioso autore sarebbe tornato a recuperarli, e non era neppure da escludere che, in futuro, la storia di Hatawk, l’indiano, avrebbe avuto un seguito…

In ogni caso si era fatto tardi, si avvicinava ormai l’orario della chiusura. Pensoso e vagamente trasognato, Onorio ripiegò i fogli e li risistemò tra le pagine 156 e 157. Ripose quindi il volume nello scaffale tra le altre opere di filosofia. Si assicurò che tutto fosse di nuovo come lo aveva trovato. Le sue ricerche filosofiche potevano anche attendere — concluse assorto, una piega ironica sulle labbra — per quella sera era già tanto se riusciva a ritrovare la via di casa.

Vedendolo uscire, la bibliotecaria gli sorrise di nuovo, ma gli sembrò un sorriso diverso dal solito, meno convenzionale, come se per la prima volta, incuriosita, si stesse ponendo qualche domanda sul suo conto. Forse era lui che la guardava adesso con occhi diversi? Oppure s’era accorta che qualcosa di nuovo e d’inatteso era accaduto? Un giorno, chissà, avrebbe dovuto chiederglielo.

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