Le terrazze d’agosto



di Diego Julio Vinicio Melendez


Senza sapere di preciso come vi fosse giunto, né quale motivo ve lo avesse condotto, Onorio Casales si trovò a percorrere le terrazze che sovrastavano la città. Quella mattina si era svegliato di buon’ora e piuttosto di buon umore nella sua stanza d’albergo. Poi, fatta una discreta colazione e sfogliato distrattamente il giornale, non avendo alcun impegno per l’intera giornata, aveva deciso di esplorare la parte più antica e popolare del centro, che si estendeva proprio alle spalle dell’hotel.

Era giorno di mercato, e gli angusti vicoli erano ingombri di bancarelle e di chioschetti che esponevano ogni sorta di mercanzie; per i rari varchi lasciati liberi s’intasavano clienti e passanti, ostacolandosi gli uni con gli altri. Mentre cercava di districarsi tra la folla, Onorio era rimasto colpito dagli sguardi intensi e dai colori sgargianti indossati dalle donne locali, spesso coperte dalla testa ai piedi, mentre gli uomini erano abbigliati perlopiù di bianco, di nero o di grigio, e s’era anche chiesto se vi fosse un significato particolare, o qualche motivo pratico per una differenza così marcata.

Al di sopra dei vicoli, i piani superiori degli edifici quasi si sfioravano, e non di rado giungevano persino a saldarsi, formando cunicoli e passaggi coperti. Di quando in quando si sboccava invece in ampi cortili, anch’essi invasi dai banchetti del mercato, ma dai quali era possibile intravedere squarci di cielo aperto.

Fu nel transitare per uno di quei cortili che gli accadde di notare, affacciata al parapetto più alto, una giovane dai lineamenti armoniosi, non più adolescente ma non ancora completamente donna, che, sola e tranquilla, contemplava la gente passare. Poteva scorgerne solo il capo e le spalle, ma a un certo momento ebbe l’impressione che stesse guardando proprio verso di lui, e che gli sorridesse. Ammaliato da quello sguardo, s’era trovato a salire una prima rampa di scale, poi un’altra, e un’altra ancora, fino a raggiungere il livello superiore dal quale la ragazza lo aveva folgorato col suo sorriso.

Lei non c’era più — di sicuro lo aveva visto salire — ma un leggero scalpiccio gli fece sospettare che si fosse nascosta dietro una fila di panni stesi; andò a vedere, ma dopo quella fila ce n’era un’altra, e poi un’altra ancora; fatta una ventina di passi, si accorse di aver già perso l’orientamento. Cercò di tornare alle scalette per le quali era salito, ma non riuscì a trovare neppure il cortile. Giunse invece dove i panni appesi non impedivano più la vista dell’orizzonte, e si rese conto che le terrazze, imbiancate a calce e comunicanti tra loro, coprivano praticamente tutte le abitazioni, spingendosi a sbalzi fino al mare che s’intravedeva in lontananza. Ciascuna, dalla forma più o meno rettangolare, era delimitata da un parapetto, alla base del quale correva un canaletto per la raccolta delle acque piovane, che si congiungeva con altri formando una rete e confluiva poi in condutture che scendevano verso i piani più bassi. Le piogge dovevano essere piuttosto rare, in quella regione — pensò — e l’acqua era senza dubbio un bene prezioso. Immaginò che nel sottosuolo grandi cisterne fossero adibite a mantenere per mesi l’acqua piovana, al riparo dai raggi del sole che l’avrebbero fatta evaporare.

Il panorama era stupendo: quella distesa di terrazze squadrate digradanti verso l’azzurro del mare, e le pareti delle case, ugualmente squadrate e bianchissime, ai lati della valle e verso l’entroterra, gli davano l’impressione di trovarsi per magia all’interno di un dipinto cubista. Ma lo splendore del sole, vicino allo zenit nel cielo senza nuvole, rendeva quel bianco abbacinante e quasi feriva la vista. Ovunque guardasse, infatti, non si scorgeva anima viva, e la congestione del viavai del mercato, abbandonato solo pochi minuti prima, sembrava cosa di un altro mondo.

Come scendere di nuovo al livello della strada e tornare tra la gente? — si chiese — Non gli restava che prendere una direzione qualsiasi, nella speranza di trovare altre scalette e un altro cortile, e spontaneamente s’incamminò verso il mare, ma le connessioni tra una terrazza e l’altra lo portarono gradualmente a deviare verso il punto in cui, diverse ore più tardi, il sole si sarebbe avviato a tramontare.

Mentre era intento a cercare la propria via in quel labirinto di muretti e di scalette, sentì la vibrazione e udì la suoneria del telefono cellulare nella tasca dei pantaloni. Lo estrasse automaticamente e rispose, senza pensare e senza smettere di procedere. Una voce maschile, che non riconobbe subito ma che gli sembrava di aver già udito in passato, cominciò a parlargli in tono accorato: si ricordava dei bei tempi andati? Quante cose erano cambiate da allora! Purtroppo, però, la comunicazione era molto disturbata, e solo a fatica Onorio riusciva a comprendere qualche frase. Dev’essere Faouzi! — pensò a un tratto — Era un giovane tunisino che aveva conosciuto diversi anni prima a Parigi, durante un soggiorno per motivi di studio. Insieme a un collega tedesco, avevano formato un insolito terzetto che si ritrovava quasi tutte le sere per esplorare a piedi le vie del centro storico, e le loro scorribande finivano regolarmente in qualche locale dove facevano le ore piccole osservando i passanti — ma soprattutto le passanti — e conversando dei più disparati argomenti, mentre sorseggiavano birre e succhi di frutta.

Adesso, tra le varie interferenze della telefonata, si inseriva ogni tanto una voce femminile — sembrava un messaggio registrato — che lo metteva in guardia da possibili truffe: chiamate effettuate da altri continenti — asseriva la voce — potevano avere il solo scopo di svuotare il credito dell’utente. A Parigi, ora che ci pensava, aveva lasciato anche una splendida ragazza, un vero peccato, che stronzo era stato! Adesso aveva intenzione di venirlo a trovare — proseguiva intanto la voce dell’uomo — dovevano assolutamente parlare, era importante, importantissimo!

Però… come faceva Faouzi ad avere il suo numero di cellulare? — si chiese Onorio sempre più sospettoso — vent’anni prima, quando si erano frequentati a Parigi, i cellulari neanche esistevano! E poi, tra loro avevano sempre parlato in francese, l’unica lingua comune a tutti e tre! Come mai adesso parlava, e pure fluentemente, la sua lingua?

Ma che succede oggi? — pensò infine, guardando perplesso il telefono. Il prefisso del numero chiamante poteva ben indicare che la telefonata proveniva dall’America. Nel contempo, notò che qualcuno, affacciatosi alla finestra, lo stava osservando con aria di sospetto, forse incuriosito da quel vociare in una lingua straniera. Allora, in tono perentorio e persino un po’ sgarbato, rispose: «Ma io non ti conosco! Guardi che deve aver sbagliato numero! E poi, in ogni caso, adesso non posso proprio parlare!» e chiuse bruscamente la telefonata. Compose subito il numero per sapere quanto credito gli rimaneva: quattro euro e rotti centesimi — rispose imperturbabile la solita voce femminile. Infatti… — considerò, con una sfumatura di disappunto — appena il giorno prima, aveva caricato venti euro, ne era certo, così per quella telefonata gliene avevano scalati almeno sedici, ma più probabilmente una ventina!

Per un attimo, una strana ipotesi gli attraversò la mente: venti euro… venti anni? C’era forse un nesso? Improbabile… anzi: impossibile! Ma cosa andava a pensare? Doveva essere l’effetto del troppo sole. Si consolò con un altro pensiero: i quattro euro che gli rimanevano erano comunque sufficienti per chiamare a casa. Poi si rese conto che a casa, ormai da tanti anni, non c’era più nessuno che potesse aspettare le sue telefonate.

Spense l’apparecchio e lo ripose nella tasca in cui era solito tenerlo. Si era anche accorto di trovarsi affacciato a un parapetto, e sotto di lui c’era un cortile, un po’ più grande di quello dal quale era salito, una vera e propria piazzetta. Anche questo era ingombro di bancarelle, e pervaso da un intenso e variegato viavai di persone. Quando gli occhi si furono abituati alla minore intensità della luce, notò anche qua e là, tra un banco e l’altro, monconi di antiche colonne greche o romane.

Il tempio della Fortuna! — esclamò tra sé e sé — doveva averne letto qualcosa sfogliando un dépliant turistico. Ed era davvero una fortuna, che vi si fosse imbattuto per caso! Da lì — pensò, rinfrancato — gli sarebbe stato facile ritrovare la via dell’albergo. Sorrise ai due che ancora lo osservavano perplessi dai davanzali delle loro finestre, e si avviò di buon passo verso le scalette che lo avrebbero riportato in mezzo alla gente.

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