Oltre la Bibbia: storia ‘normale’ e un po’ banale (parte 1ª)



SCHEDA DI LETTURA — di Aurelio Rocco Solina

Mario Liverani,
Oltre la Bibbia. Storia antica di Israele,
Laterza 2003.

In questa prima parte di approfondimento consideriamo in dettaglio i primi 9 capitoli del saggio.

Antefatto: l’imprinting della cultura egizia


Lo scenario iniziale è quello della Palestina nel Tardo Bronzo (1550-1180). Rispetto ad altre aree del Vicino Oriente (Egitto e Mesopotamia, Siria e Anatolia) si tratta di un territorio modesto, sia per l’entità e la frammentazione dei terreni coltivabili, sia per le condizioni climatiche (prevalenza di zone semi-aride); in tutto, le aree abitabili ammontano a circa 20.000 km² (quanto una grande regione italiana) e all’epoca non raggiungono i 250.000 abitanti (durante l’età del Ferro II, cioè al culmine dello sviluppo, ne potranno ospitare circa 400.000). Le tecniche produttive del tempo consentono lo sviluppo di città di dimensioni piuttosto ridotte (3-4000 abitanti) — sedi di "piccoli re", contrapposti ai "grandi re" degli imperi — mentre la popolazione extra-urbana vive aggregata in piccoli villaggi. Per tutta l’età del Bronzo, il progressivo sfruttamento delle risorse naturali e i mutamenti climatici, aggravati da una pressione tributaria crescente, causano il graduale concentrarsi della popolazione nelle zone agricole più produttive, abbandonando quelle semi-aride e quelle di altura alla pastorizia transumante.

Stretta tra due grandi imperi, quello Egiziano a sud e quello Hittita a nord, dopo le spedizioni di conquista volute da Tuthmosi III (metà del XV sec.), la Palestina si venne a trovare, per gli ultimi tre secoli del Tardo Bronzo, sotto il controllo, diretto o indiretto, dell’Egitto. Sebbene, completata la conquista, la presenza militare egiziana si fosse ridotta ad alcune centinaia di soldati, la soggezione che incuteva il potere imperiale era tale che i "piccoli re" locali si consideravano "servi" e tributari del "grande re", il Faraone. Questi, secondo l’immaginario religioso egiziano, era il "Sole di tutte le terre", un vero e proprio dio — anzi: «dèi» (usando il plurale, come nell’ebraico elohîm) — e in cambio dell’assoluta sottomissione — nonché dei tributi annuali — concedeva la "vita", che politicamente corrispondeva al diritto, concesso al re, di regnare come suo vassallo, ma nell’immaginario religioso egiziano era concepita concretamente come un "soffio vitale" (respiro, parole; ebraico: ruah) dispensato dal Faraone a quanti entravano in rapporto con lui. In precedenza, i "piccoli re" palestinesi erano abituati a rapporti politici basati sulla reciprocità (sottomissione e tributi in cambio di protezione), ma il Faraone era un dio lontano, esigente e solerte nel riscuotere quanto dovuto, ma spesso indolente nel rispondere alle sollecitazioni o alle richieste di soccorso; non c’è da stupirsi che i rapporti con l’autorità egiziana suscitassero una certa apprensione, insoddisfazione e frustrazione, quando non una vera e propria angoscia, quale traspare in alcune lettere dell’epoca. Sono tratti — ma ve ne sono altri ancora — che sarà facile rintracciare nella successiva religione monoteista, e Liverani descrive questo lascito del mondo egizio come un vero e proprio "imprinting" culturale.

Nei villaggi viveva la maggior parte della popolazione, costituita da agricoltori (un 60% del totale) e da pastori (un 20%). Gli uni e gli altri, (uomini) liberi e proprietari dei rispettivi mezzi di sostentamento, erano indicati come "figli di", in quanto nell’ambito di uno stesso villaggio erano in genere imparentati tra loro, per via della pratica dei matrimoni incrociati (intesa a mantenere le proprietà all’interno del "clan"). Vi erano poi i "servi del re" (un 20% del totale), indicati invece come "appartenenti a", che vivevano alle dipendenze del "palazzo", il quale provvedeva, in cambio delle prestazioni lavorative, alle loro necessità. I documenti dell’epoca riferiscono però anche di tribù nomadi "esterne" sulle quali il re non aveva alcuna autorità, e che venivano spesso percepite e rappresentate come pericolose e inaffidabili.

Tra i compiti richiesti ai re vassalli, oltre a "proteggere" la città per conto del Faraone (ovvero tenerla in ordine e in efficienza) vi era anche quello di difenderla dai nemici (indicati genericamente come habiru); questi potevano essere di varia provenienza: tribù nomadi indipendenti, ribelli o sbandati dediti al brigantaggio, ma anche fuggiaschi, ovvero cittadini o abitanti dei villaggi che dopo essersi indebitati si erano visti costretti alla fuga per evitare di finire schiavi per debiti (dopo aver ceduto i beni, i figli, e persino le mogli). Il lettore potrebbe forse già sospettare che il termine "habiru", qualsiasi cosa indicasse a quell’epoca, abbia finito per dare origine, col passare del tempo, alla dizione "Ebrei".

Infatti una stele a Bet-She’an (ca. 1289) riferisce di lotte tra gruppi locali (che agli occhi degli Egiziani dovevano apparire ben turbolenti) e nomina, oltre ai «Habiru del monte Yarmuti», anche una tribù di Raham; se questa tribù — argomenta Liverani — si definiva "figli di Raham", è logico pensassero di discendere da un "padre di Raham" (*Abu-Raham = Abramo). La prima menzione del termine "Israele" si trova invece nella stele di Merenptah (ca. 1230) e sembra riferirsi a un gruppo tribale non sedentario, collocabile tuttavia dal contesto nella zona degli altopiani centrali. Siamo dunque alla fine del XII sec., e a questi nomi di cui iniziano a rimanere sparse tracce, non corrisponde ancora alcuna identità definita, né etnica, né religiosa, né tantomeno linguistica: la scrittura (in prevalenza cuneiforme di provenienza hittita o babilonese) è infatti monopolio delle scuole scribali annesse al "palazzo", dove viene adoperata per la corrispondenza e la registrazione degli archivi.


Una storia ‘normale’


La descrizione delle vicende storiche dell’area siro-palestinese nel periodo compreso tra la crisi finale dell’Età del Bronzo e la conquista babilonese è scandita in otto capitoli che procedono secondo una scansione cronologica (con l’unica eccezione del 5° e del 6° che espongono le storie in buona parte sovrapposte dei due regni di Israele e Giuda).

Secondo Liverani, i tre modelli di "etnogenesi" che hanno nel tempo contrapposto gli studiosi: (1) la conquista "militare", più o meno conforme al racconto biblico (dopo l’esodo dall’Egitto); (2) l’occupazione progressiva, per sedentarizzazione di gruppi pastora1i locali oppure per infiltrazione dalle contigue aree pre-desertiche; (3) la rivolta contadina contro le città-stato dei piccoli re, andrebbero integrati in un modello "multifattoriale". Occorre tuttavia tener conto che le uniche evidenze di popolazione immigrata riguardano i Filistei (tra i "Popoli del mare"), i quali si stabilirono nella zona costiera e mantennero caratteri ben riconoscibili (ceramica, sarcofagi antropoidi in terracotta).


Nella prima metà del XII sec., il sistema socio-economico del Tardo Bronzo si avviava ad una crisi per motivi interni (sfruttamento delle risorse, esasperazione delle disuguaglianze, conseguente "disaffezione" popolare), quando rapidi mutamenti climatici (siccità, carestia) provocarono estesi movimenti di popolazioni intorno al Mediterraneo orientale (da migrazioni più o meno pacifiche a vere e proprie invasioni: dei Libici, dei "Popoli del mare", degli Aramei, ecc.); indeboliti dalle tensioni interne e travolti dalla pressione esterna, molti dei grandi centri più a Nord — Hattuša, Alalakh, Ugarit — crollarono e vennero abbandonati. A differenza dell’impero hittita di Katti che cedette sotto la pressione degli invasori, l’Egitto riuscì a resistere, ma dovette in parte ritirarsi dal delta del Nilo nonché allentare il controllo sull’area palestinese.


Col collasso dei palazzi del Tardo Bronzo scompaiono anche le strutture amministrative, artigianali, commerciali che facevano loro da contorno e da supporto; la metallurgia del bronzo viene soppiantata da quella, più "decentrabile", del ferro; vanno in disuso gli archivi e la stessa pratica della scrittura (in prevalenza cuneiforme di origine hittita o babilonese, monopolio delle scuole scribali palatine), che solo col tempo sarà reintrodotta con la diffusione dell’alfabeto. La domesticazione del cammello e del dromedario consentirà di aprire nel deserto nuove rotte carovaniere, impraticabili agli asini comunemente utilizzati nell’età del Bronzo. Innovazioni dovettero esserci anche nella navigazione (ancorché non ancora dimostrate, ma è un fatto che le rotte si allontanano sempre più dalle coste) e nelle infrastrutture agricole (disboscamenti, terrazzamenti, canalizzazioni sotterranee e scavo di pozzi profondi), che resero coltivabili e abitabili zone fino allora inutilizzate.

Gradualmente, attraverso processi di nomadizzazione e sedentarizzazione, acquista sempre maggior forza l’elemento tribale, che si fonde col già menzionato fenomeno "habiru" e origina i nuovi insediamenti del Ferro I, favoriti dall’utilizzo delle nuove tecnologie e caratterizzati da rapporti sociali più egualitari, fondati su veri o presunti rapporti parentali. È in questo senso che bisogna intendere la "casata di David" (regno di Giuda) o la "casata di Omri" (regno di Israele), del tutto analoghe alla "casata di ‘Ammon" (in Transgiordania) o a quella "di Rehob" (provincia di Aram, Syria).

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Il secolo che segue (dal 1150 al 1050 ca.) è necessario perché l’area del Levante trovi un nuovo assetto: rispetto al Tardo Bronzo, aumentano (fino a 9 volte negli altopiani centrali) gli insediamenti nei territori di altura; nelle zone che erano già occupate si riscontra una maggior continuità con la precedente cultura "cananea" (caratterizzata dai resti di ossa di maiale, assenti altrove); i nuovi villaggi negli altipiani mostrano invece una struttura circolare che riproduce quella tipica degli accampamenti dei nomadi. L’economia agro-pastorale è basata su cereali e caprovini, olive e uva (con produzione di olio e vino, quest’ultimo «mantenuto alla soglia dell’accettabilità religiosa»). Nei villaggi le istallazioni di culto sono piuttosto rare, situate all’aperto oppure limitate a una singola stanza (come a Hasor); non si evidenziano ancora forme di culto radicalmente differenti da quelle cananee.

La "tribù" ha una struttura a livelli gerarchici: il "clan" corrisponde al singolo villaggio, al cui interno la "famiglia allargata" raggruppa più "famiglie nucleari" imparentate tra loro. Mentre si può supporre che i livelli più bassi corrispondano a una realtà storica effettiva, la sistematizzazione (retroiettiva, ovvero per proiezione nel passato) delle tribù e l’idea di una loro grande federazione è molto più tarda (compare solo nel VI sec., ovvero all’epoca dell’esilio babilonese!). Fra le tribù della lista "canonica", sembrano ben attestate quella di Giuda (collocata nell’area intorno a Gerusalemme e Hebron dove si svilupperà il regno di David, a metà del X sec.), Beniamino (nell’area immediatamente a nord), Efraim e Manasse (negli altipiani centrali, dove si svilupperà, sempre a metà del X sec., il regno di Saul); le altre risultano invece di incerta collocazione (Gad, Ruben, Dan, Zabulon, Neftali, Asher) o addirittura di dubbia esistenza (Simeone, Levi). La costruzione di una unità politica superiore (la "Lega delle dodici tribù") è sicuramente un’invenzione di molto posteriore, motivata ideologicamente, e tuttavia una certa uniformità di usi e di norme per la tutela della famiglia (quali il "levirato": l’uso di sposare la vedova del fratello defunto) e del patrimonio (come il "riscatto" di proprietà cedute in stato di necessità) può aver favorito il successivo sviluppo di una consapevolezza identitaria di tipo etnico.

Per quanto riguarda i "dieci comandamenti", mentre il loro "cappello" monoteista non può essere anteriore all’epoca di Giosia (VII sec.), il IV comandamento — «Onora il padre e la madre […]» — è espressione di un mutamento avvenuto già nel Tardo Bronzo nelle norme per il possesso ereditario della terra, infatti le parole che seguono: «[…] per aver vita lunga e felice sulla terra (adamah) che Yahweh t’ha dato» sono interpretate da Liverani come: mentre in precedenza l’eredità indivisa andava per diritto al primogenito, si afferma il principio che "non c’è maggiore né minore", e quindi l’eredità dovrà essere "meritata" impegnandosi ad onorare (leggi: mantenere, sostentare) i genitori (e in particolare la madre vedova, detta "padre-madre"); una tale datazione (alla seconda metà del II millennio) lascerebbe ipotizzare che anche altri comandamenti di tono morale e persistente abbiano origine nello stesso periodo.

Analogo rilievo riveste il "Codice dell’Alleanza" che, depurato da integrazioni più tarde, si può far risalire all’epoca pre-esilica. Le norme che contiene ben si attagliano ad una società agro-pastorale costituita da villaggi autonomi, non regolati da un’autorità superiore (regia o palatina o templare), e tuttavia vi compaiono anche disposizioni recepite da antiche legislazioni mesopotamiche (Eshnunna, Hammurapi, inizio del secondo millennio). Una apposita norma prescrive che il "servo ebreo" (’ebed ‘ibri) dovrà essere liberato dopo sette anni, e qui "ebreo" non ha ancora un’accezione etnica, ma è inteso come "habiru", indica cioè qualcuno che pur avendo status di uomo libero, è costretto per debiti a offrirsi come servo (leggi: schiavo); la legge prevede che tale condizione sia temporanea, ma anche che egli possa, rinunciando alla libertà, renderla permanente. Nel Tardo Bronzo la liberazione era legata all’insediamento di un nuovo sovrano; qui, in assenza di autorità regale, viene fissata ogni sette anni (anno "sabatico", in analogia col riposo settimanale o "šabbat") oppure ogni cinquanta (sette volte sette più uno, "giubileo", da "yôbel"). L’intero codice ha un carattere prevalentemente "utopico", e tuttavia si contrappone nettamente agli usi e alle norme della precedente società palatina.

Al di fuori degli altipiani, nelle valli e nelle zone costiere e collinari, si concentrava ancora buona parte della popolazione e i "piccoli re" cananei si barcamenavano tra i nuovi popoli giunti dal mare (la pentapoli dei Filistei), le persistenti pretese egemoniche egiziane, e la crescente pressione degli elementi tribali. È in questo contesto che vanno letti i celebri versi sulla battaglia di Gibe’on (dal libro di Giosuè): «Fermati, o Sole, su Gibe’on […]» che si riferiscono in realtà al Faraone (il Sole), il cui mancato intervento avrebbe permesso di sopraffare gli eserciti delle città cananee [1].

La presunta adozione già in quest’epoca di Yahweh come dio unico delle tribù israelitiche è una evidente forzatura posteriore; nessuno dei Patriarchi, degli eponimi tribali, dei Giudici o dei re di questo periodo porta nomi yahwisti (facilmente riconoscibili); questi esistevano (Giosuè, Yonatan), ma erano meno frequenti di altri teofori con Ba’al, El, ‘Anat, Sedeq, Shalom, e consimili.

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Nel periodo che segue (dal 1050 al 930 ca.), i mutamenti demografici, politici, sociali, economici e tecnologici legati al crollo del sistema regionale del Tardo Bronzo costituiscono il quadro in cui può avvenire la formazione sia delle tribù proto-israelitiche, sia di altre entità simili tra le quali si sviluppano rapporti spesso conflittuali. Mentre le prime si aggregano riutilizzando i preesistenti stati "dimorfici" (agro-urbani e agro-pastorali) di Gerusalemme e di Sichem, assistiamo all’aggregazione degli Ammoniti (a est del medio Giordano), dei Moabiti (a est del Mar Morto) e degli Edomiti (a est della ‘Araba); più a nord si aggregano gruppi tribali aramaici, dallo staterello di Geshur a quello successivo e più ampio di Soba; le vie carovaniere lungo le quali correvano i traffici verso la penisola arabica erano in mano alle tribù cammelliere del deserto stanziate nello Higiaz e nello wadi Sirhan: Ismaeliti, Midianiti, Amaleciti, la cui lontana parentela con gli Israeliti trova rappresentazione soprattutto in storie di "allontanamento" (Hagar e Ismaele cacciati da Abramo nel deserto).

Già nell’archivio di el-’Amarna (XIV sec.), le città di Sichem e di Gerusalemme erano caratterizzate, rispetto alle "normali" e più piccole città-stato delle pianure, da una tendenza espansiva e dal loro legame con l’elemento ‘habiru’; con l’età del Ferro I, esse subiscono, seppure con modalità diverse, un processo di assimilazione e assorbimento da parte dei gruppi pastorali circostanti, ormai dotati di strutture di potere autonome. Così, dopo un periodo di protettorato, l’efraimita Abimelek s’impone come re di Sichem (fine dell’XI sec.).

Il "cantico di Debora", ritenuto uno dei testi più antichi della Bibbia, riporta, insieme al testo costruitogli attorno, la battaglia di Ta’anak presso Megiddo (fine dell’XI secolo) in cui le milizie tribali della Galilea (Zabulon, Issacar, Neftali) e centrali (Makir/Manasse, Efraim, Beniamino), affrontarono e sconfissero i temutissimi carri da guerra delle città cananee. Il ruolo centrale svolto dalla profetessa Debora (il cui nome significa "ape"), e il fatto che sia l’unica donna a svolgere la funzione di giudice (in senso biblico), ne fanno un personaggio del tutto particolare. Del crollo della città di Hasor si avvantaggiarono però principalmente i Filistei, che penetrando nella piana di Yizre’el riuscirono ad impedire l’integrazione della tribù di Manasse con quelle della Galilea.


Intorno all’anno 1000, nel territorio compreso tra le città di Sichem a Nord e Gerusalemme a Sud, e occupato dalle tribù di Efraim e Beniamino, prende forma il regno di Saul — il primo ad esser considerato propriamente "israelitico" — occorre però depurare il testo biblico da integrazioni successive volte a farne una realtà pan-israelitica e da giudizi politico-morali di segno negativo, frutto di polemiche posteriori. L’esercito era composto di 2000 uomini di Efraim e 1000 di Beniamino; la corte aveva una base familiare e funzioni militari; nelle scritture lo stesso re Saul più che "re" (melek) è definito "capo" (nagîd). Con le tribù di Manasse (a Nord) e di Giuda (a Sud), ritenute in qualche modo "affini", il regno intratteneva rapporto ora di collaborazione ora di contrasto; con i vicini orientali (gli Ammoniti) e occidentali (i Filistei), invece, percepiti più nettamente come alieni, il conflitto era perenne e assai duro. Fu proprio combattendo contro i Filistei che Saul trovò la morte, e gli subentrò per qualche anno il figlio Ishba’al, che — va notato, per inciso — è un nome baalista, e quindi il culto di Yahweh a quell’epoca (ammesso che fosse diffuso) non doveva essere poi tanto assoluto. Le vicende del regno di Saul furono successivamente rimaneggiate e caricate di giudizi negativi in chiave antimonarchica, a tutto vantaggio della casta sacerdotale.

Ma revisioni e integrazioni ancora più ingenti subirono le vicende del regno di David, che dovette svilupparsi quasi contemporaneamente (e non in seguito) nel territorio di Giuda, a sud di Gerusalemme. David agisce inizialmente come capo-banda del suo clan (tra i quali accoglie anche sbandati habiru), combattendo contro i Filistei dapprima per Saul, poi per conto proprio, infine crea un suo dominio a Siklag proprio con l’appoggio dei Filistei — che intendevano usarlo contro Saul — e dopo la morte di questi riesce a farsi eleggere "re di Giuda" a Hebron. Alla morte di Ishba’al, gli anziani di Efraim e Beniamino gli offrono di regnare anche sul loro territorio; quindi Gerusalemme, ormai accerchiata, viene annessa e fatta capitale del nuovo regno. A Gerusalemme David "importa" da Hebron il culto di Yahweh, che si viene ad affiancare alle divinità locali (i figli natigli a Hebron hanno nomi yahwisti; quelli nati a Gerusalemme hanno nomi composti col teonimo Shalom: Abshalom e Shelomo/Salomone, che ricorre anche nel nome della città). L’annessione di Gerusalemme (col suo palazzo reale e la modesta burocrazia di tipo "cananeo") fornisce al regno di David una prima struttura amministrativa. A dispetto dei toni trionfalistici delle scritture, gli scontri contro Ammoniti ed Aramei ad Est dovettero seguire alterne vicende, mentre i Filistei ad Ovest rimasero egemoni su tutta l’area. Anche all’interno dei territori controllati vi furono rivolte (specie fra i Beniaminiti, notoriamente ribelli e turbolenti), faide personali e lotte per la successione. Le descrizioni bibliche dell’ascesa di David e delle vicende relative alla sua successione sembrano elaborate posteriormente in fasi diverse (imitano infatti generi letterari differenti e riconducibili a epoche distinte). Pare certo comunque che David riuscì a trasmettere il trono al suo ultimogenito Salomone, e un’iscrizione aramaica rinvenuta a Tel Dan e risalente a due secoli dopo (ca. 840), attesta che all’epoca si usava ancora definire "casata di David" (byt dwd) il regno di Giuda, contrapposto al regno del nord.




L’estensione attribuita dalle scritture al regno di Salomone è del tutto irreale, e può essere relativa soltanto alle ambizioni espansionistiche (peraltro mai realizzate) del più tardo regno di Giosia. L’esistenza dei "dodici distretti di Salomone" (dai quali era escluso il territorio di Giuda), che sarebbe motivata dalla rotazione mensile nel sostentare i bisogni del Palazzo reale, risulta invece del tutto anacronistica nel contesto di un processo formativo come quello descritto da Liverani. Al carattere bellicoso e militaresco del regno di David dovette certo subentrare (sotto Salomone) una maggiore enfasi su amministrazione, corvée e tassazione, ma le proverbiali virtù salomoniche — giustizia e sapienza — basate come sono su competenza lessicale e su enigmi da svelare, non possono che essere costruzioni tardive di stampo babilonese, e hanno del resto molti paralleli nella novellistica orientale. Ma la fama di Salomone è legata soprattutto alla costruzione del tempio di Yahweh e del palazzo reale. Le dimensioni attribuite a questi edifici dai testi biblici risultano del tutto incompatibili con l’estensione della città quale risulta dalle indagini archeologiche; anche in questo caso, si tratta di progetti di epoca persiana proiettati all’indietro (retroiettati) al tempo di Salomone per conferir loro un valore fondante.

Analogamente prive di riscontri sono altre imprese attribuite dai testi a Salomone, quali la costruzione di porte urbiche e di "stalle" in altre grandi città (Megiddo, Gezer, Hasor), la cui datazione è in realtà posteriore (IX sec.). Tra le imprese commerciali, appaiono sospette quelle marittime (il primo insediamento sulla costa è archeologicamente databile all’VIII secolo) e la favoleggiata visita della regina di Saba, intessuta com’è di elementi novellistici, risulta storicamente poco credibile per motivi tanto socio-politici quanto geo-economici.

Il "periodo formativo" si chiude bruscamente con la spedizione militare del faraone "libico" Sheshonq (ca. 925, quindi dopo la morte di Salomone o, secondo altri, negli ultimi anni del suo regno), spedizione che intendeva ripristinare la sovranità egiziana — che si era gradualmente ridotta ad essere solo teorica — sull’area siro-palestinese e soprattutto sulla zona costiera. La campagna militare, documentata sia dall’iscrizione del Faraone sul tempio di Karnak sia da un frammento di stele di Sheshonq ritrovato a Megiddo (dove era stata lasciata al passaggio dell’armata), non investì direttamente gli altipiani centrali che costituivano i territori di Giuda e di Israele, preferendo piuttosto aggirarli seguendo le zone pianeggianti (medio Giordano, piana di Yizre’el, piana costiera); essa tuttavia produsse una cesura notevole, rendendo entrambi i regni tributari dell’Egitto; può esser dunque presa a riferimento tanto della transizione dal Ferro I al Ferro II, quanto della conclusione di quella contrapposizione tra le "due culture" (quella urbana e quella pastorale) che aveva caratterizzato l’età formativa.

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Successivamente alla morte di Salomone, troviamo Roboamo a Sud (regno di Giuda) e Geroboamo a Nord (regno di Israele, un nome legato da tempo agli altopiani centrali e alle saghe del "ciclo di Giacobbe"). I testi attribuiscono la scissione tra i due regni all’oppressione fiscale, anche se con ogni probabilità un regno unito non era mai esistito. La spedizione di Sheshonq, provocando estese distruzioni dalla piana di Yizre’el al Medio Giordano, aveva finito per favorire la saldatura fra Efraim e le tribù della Galilea, e in particolare con Manasse, rapporto privilegiato che venne tradotto genealogicamente nella comune figliolanza di Efraim e Manasse da Giuseppe (dando vita in tal modo alla "casa di Giuseppe").

 
 

Nel regno del nord seguirono poi quarant’anni (930-740 ca.) di guerre e successioni violente: Nadab figlio di Geroboamo venne ucciso da Baasa — l’unico a regnare per un lungo periodo (24 anni) — poi il figlio di questi Ela venne ucciso da Zimri… finché non salì al trono Omri (885-874) che decise di spostare la capitale da Tirsa, edificandone una ex novo a Samaria. Ad Omri succedette il figlio Achab (874-853), poi i figli di questo Ochozia (853-852) e Yoram (852-841). Sotto la "casa di Omri" il regno di Israele ebbe un periodo di espansione politica e di notevole crescita economica e culturale, tuttavia la posizione antimonarchica di alcuni profeti finì per dipingere la dinastia a tinte fosche, forse anche a causa del loro sincretismo religioso, funzionale alle alleanze politiche. Di fatto la dinastia degli Omridi terminò in un bagno di sangue ad opera del generale Yehu, "longa manus" del re di Damasco, che fece trucidare l’intera famiglia reale («70 "figli" di Yoram») in un crescendo di crudeltà e di odio integralista (yahwismo contro baalismo, ma anche rapporti di sudditanza agli Aramei anziché alleanza coi Fenici di Tiro). A Yehu (841-814), succedettero poi i suoi discendenti Yoachaz (814-798), Yoas (798-783) e Geroboamo II (783-743); poi anche questo periodo di stabilità e di prosperità ebbe termine quando l’avvento al trono di Tiglat-pileser III in Assiria (intorno al 745), portò a un aumento dell’ingerenza imperiale nella zona siro-palestinese.


A quell’epoca, prima di prendere decisioni importanti, i re si consigliavano innanzitutto con i funzionari di corte (in qualità di "tecnici"); in qualche caso potevano consultare le assemblee dei rappresentanti della comunità (quella degli "anziani", pochi esponenti di ciascun clan, oppure anche quella degli "uomini", assai più numerosa e manipolabile); ma raramente prendevano una decisione (militare o civile) senza che fosse preliminarmente avallata dalla divinità. Questa funzione veniva assolta dai "profeti" (nabî’, "proclamatore", pl. nabî’im; oppure kozeh, "veggente"). La consultazione divina era diffusa, con modalità analoghe, in tutto il Vicino Oriente antico (e ciascuno ovviamente consultava il proprio dio: Shamash per gli Assiri, Ba’al per i Fenici, Ba’al-zebub per i Filistei, ecc.). I profeti sono però di tipi diversi: vi sono quelli raggruppati in santuari o direttamente alle dipendenze della corte (comprensibilmente più accomodanti e filomonarchici), quelli isolati o carismatici, spesso collocati in luoghi remoti (più critici verso il re e la corte, i sacerdoti, il popolo o i profeti "istituzionali"), quelli itineranti (più caratterizzati da un comportamento mistico-estatico). Sorta di santoni o sciamani, compiono miracoli (moltiplicano pani e olio, guariscono malati e resuscitano morti, fanno piovere e cessare le carestie, possono perfino ascendere in cielo), denunciano le ingiustizie sociali (verso poveri, vedove, orfani, stranieri) [cfr. wikipedia], pronunciano oracoli (detti e parole di Dio) che possono essere di approvazione o di condanna, di rovina oppure di salvezza (da cui "profeta" come colui che predice). Dal punto di vista politico, possono legittimare o delegittimare un sovrano o un’intera dinastia (il profeta yahwista Eliseo, ad esempio, ispirò Yehu ad usurpare il trono sterminando la casa regnante e alle successive epurazioni anti-baaliste), e lasciarono un’impronta decisiva nella stesura dei testi sacri (molti dei testi biblici sono attribuiti a profeti).

È probabile che già nel IX secolo Yahweh fosse in qualche modo il dio "nazionale", ma il suo culto non era a quel tempo incompatibile con altre divinità, anche ufficialmente accettate: oltre a Ba’al, è il caso delle divinità femminili Astarte e Ashera.

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Dopo la morte di Salomone, il regno di Gerusalemme rimase circoscritto al territorio di Giuda e Beniamino, e sotto Roboamo (931-913) subì il passaggio dell’esercito di Sheshonq, al quale pagò tributo attingendo ai tesori del tempio, che a quel tempo era una mera dipendenza del palazzo reale, usato per custodirne le ricchezze. Ripetute guerre con Israele indussero poi Asa (911-870) a sollecitare (pagando) l’intervento militare di Damasco. La "casata di David" «vivacchiò per un secolo in situazione di subalternità (inizialmente rispetto all’Egitto, poi rispetto ad Israele, occasionalmente rispetto a Damasco), dilapidando le sue modeste ricchezze, e finendo in un bagno di sangue» ad opera di Atalia, figlia di Omri andata in moglie a Yoram (848-841), che fece trucidare tutti gli eredi di Ochozia e prese essa stessa il potere.

Atalia regnò "per sette anni" (841-835), dopodiché rimase uccisa in una rivolta (architettata dal sacerdote Yoyada’), e il "popolo del paese" (‘am ha’ares) venne chiamato ad acclamare il nuovo re: Yoas. Di questi si narra nel Libro dei Re — secondo la tipica sequenza fiabesca di danneggiamento -› occultamento -› riscossa — che fosse un figlio di Ochozia salvatosi per caso alla strage, essendo neonato, che venne tenuto nascosto nel tempio "per sette anni", fu poi riconosciuto legittimo erede dalle guardie del corpo, recuperò il regno con un colpo di mano, e regnò infine "per quarant’anni". I 7 anni e i 40 sono numeri ricorrenti nei testi sacri e vanno intesi in senso simbolico, ma notiamo in questa storia la comparsa di un sacerdote (legato al tempio) e del "popolo" (estraneo al palazzo) che viene chiamato a legittimare una successione non "naturale". A Yoas, che dopo molte guerre finì ucciso dai suoi stessi ufficiali, successe il figlio Amasia (796-781), il quale rimase anch'egli ucciso da una nuova sollevazione. Dopo una serie di alterne vicende, verso la fine del regno di Yotam (752-736), il re di Damasco e quello di Israele invasero Giuda, e assediarono Gerusalemme. Com’era consuetudine, il nuovo re di Giuda Achaz (736-716) tentò di sottrarsi al pericolo pagando una forte contribuzione, presa ancora una volta dal tesoro del tempio, questa volta per invocare l’intervento dell’assiro Tiglat-pileser III, e offrendo sottomissione a quest’ultimo. Ma il rimedio si rivelò ben presto assai peggiore del danno.

Nel regno di Giuda, il culto esclusivo di Yahweh sembra prendere piede nella prima metà del IX secolo; il primo re con nome yahwista è Yosafat (870-848), una generazione prima che in Israele, e dopo di lui l’uso di nomi yahwisti nella dinastia reale diviene praticamente costante. Yahweh aveva certamente a Gerusalemme un tempio di grande prestigio (quello che sarà poi retrodatato al tempo di Salomone), ma la fede yahwista della casa regnante non implica l’esistenza di un’unica religione di stato: gran parte della popolazione era dedita ai culti agrari della fertilità, caratterizzati da santuari all’aperto, su alture (bamôt), stele in pietra (massebôt) e tronchi (decorati?) (‘ašerôt oppure ‘ašerîm); le ricorrenti distruzioni di tali luoghi di culto da parte dei re di Giuda — su cui insistono i testi sacri — non fanno che confermare la difficoltà della loro eliminazione. Nonostante il profetismo yahwista fosse nel regno di Giuda meno influente sulla politica di quanto avvenga nel Nord, il suo sviluppo appare precoce e più saldo — presumibilmente perché le origini del culto sono meridionali: nella forma di "dio degli eserciti" (Yahweh seba’ôt), il dio veniva portato in battaglia dentro un’arca mobile — seppur non ancora propriamente "monoteista": alcune iscrizioni databili alla metà dell’VIII secolo, rinvenute a Kuntillet ‘Ajrud, una fortezza nel deserto del Sinai, riportano invocazioni del tipo:
«ti benedico per Yahweh di Samaria (/di Teman) e per la sua Asherah»
e a Khirbet el-Qom:
«sia benedetto Uriyahu da Yahweh e dalla sua Asherah, dai suoi nemici l’ha salvato»
da cui emerge chiaramente che a quell’epoca Yahweh era correntemente associato nel culto alla sua paredra Asherah [2].

Nonostante le loro diversità, Giuda e Israele condividono molti aspetti di un’ideologia religiosa e politica che a quell’epoca è peraltro comune a tutti gli stati del Levante, quali il rapporto privilegiato con un dio "nazionale", la "guerra santa", la punizione (divina) dell’infedeltà. Ne è un esempio la stele di Mesha’ re di Mo’ab (ca. 850), in cui il dio nazionale moabita Kemosh svolge un ruolo analogo a quello del giudeo/israelita Yahweh:
«Kemosh mi disse: "Va’ e prendi Nebo da Israele". E io andai di notte, combattei dall’alba a mezzodì, la presi e uccisi tutto ciò che c’era, 7000 uomini e donne, indigeni e stranieri e schiave, perché li avevo consacrati a Ashtar-Kemosh»
e anche in un altro passo allude alla pratica dello sterminio totale e rituale del nemico vinto, la procedura che gli Israeliti chiamavano herem:
«Uccisi tutti gli abitanti della città, come spettacolo dimostrativo per Kemosh e per Mo’ab»
In questo contesto, anche la sconfitta era attribuita alla volontà del dio nazionale, per punizione di una qualche colpa commessa dal suo popolo:
«Omri, re d’Israele, aveva oppresso Mo’ab per lunghi giorni, perché Kemosh era adirato contro la sua terra»
In ogni caso, anche nella situazione in cui tutto sembra perduto, l’unica salvezza non può venire che dallo stesso dio. Zakir re di Hamat (ca. 780), assediato nella città di Hadrak, si rivolge (tramite i soliti profeti e interpreti di segni divini) al suo dio Ba’al-shamin, e ne riceve in risposta l’assicurazione:
«Non temere! Sono io che ti ho fatto re, e (dunque) io starò con te e ti libererò da tutti i re che hanno posto l’assedio contro di te!» [Gibson, 1975]

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Ad oriente, l’Assiria che nel frattempo si era ricompattata sotto Assurnasirpal II (883-859), con il suo successore Salmanassar III (858-824) aveva ripreso le mire espansionistiche sull’area siro-palestinese. Sferrate una serie di campagne militari, non aveva però proceduto all’annessione diretta dei territori, ma si era accontentata della sottomissione di gran parte degli stati esistenti. Così nell’841 Yehu pagò tributo a Salmanassar, e ancora verso l’800 Yoas pagò tributo ad Adad-nirari III. Fu poi Tiglat-pileser III (744-727), riassorbite le spinte interne al frazionamento, a riprendere una politica di espansione esterna. Sotto i colpi dell’efficiente macchina bellica assira caddero Aleppo, Patina, Hadrak, e infine Damasco (732), che era diventato lo stato più potente della Siria. L’Assiria giungeva ormai alle frontiere di Israele. Qui, l’usurpatore Menahem (743-738), si era affrettato a pagare tributo dichiarandosi vassallo di Tiglat-pileser, ma suo figlio Peqahya (738-737) venne ucciso da un altro usurpatore, Peqah (737-732) che, insieme all’ultimo re di Damasco Resin, attaccò Giuda e pose Gerusalemme sotto assedio. Il re di Giuda, Achaz (736-716), vistosi ridotto a mal partito, invocò l’aiuto degli Assiri, dichiarandosi servo di Tiglat-pileser, e questi colse subito l’occasione per invadere Israele da Nord, conquistando agevolmente Galilea e Gile’ad. Invece di prendere Samaria, fece eliminare Peqah da un ennesimo colpo di stato, il cui autore Osea poté regnare (732-724), come vassallo assiro, su un territorio limitato ad Efraim e Manasse. Dalle province conquistate, gli Assiri iniziarono a deportare diverse migliaia di Israeliti (13.520, secondo gli annali di Tiglat-pileser).


Dopo alcuni anni, Osea decise di sospendere il pagamento contando sull’appoggio promesso dal Faraone. Salmanassar V attaccò dapprima le città della Fenicia centro-meridionale (Sidone, Ushu, ‘Akko), e infine Israele: imprigionò Osea e pose l’assedio a Samaria, la cui capitolazione, avvenuta nel 721, fu però vantata dal suo successore, il grande Sargon II:
«Con la rassicurazione di Assur, che mi fa (sempre) raggiungere il mio scopo, combattei contro di loro […] 27.290 dei loro abitanti portai via, 50 carri presi per la mia truppa regia […] Samaria modificai e feci più grande di prima. Genti delle terre da me conquistate vi feci risiedere, insediai uno dei miei eunuchi come governatore su di loro, e imposi loro tributo e tassa come agli Assiri»
Israele dunque crollò miseramente (come del resto molti degli stati circostanti), mentre il regno di Giuda (responsabile di aver fornito il pretesto per l’intervento assiro) restava quasi indenne, seppure ormai in condizioni di subordinazione: Achaz dovette recarsi a Damasco per rendere omaggio a Tiglat-pileser e consegnargli il tributo. Dopo di lui, il figlio Ezechia (716-687), ritenne di poter sospendere il pagamento, iniziò anzi a svolgere una politica anti-assira, riallacciando rapporti con l’Egitto e col caldeo Marduk-apal-iddina. Costruì diverse fortezze a difesa del paese e dotò Gerusalemme di fortificazioni e di un sistema idrico tali da poter resistere a un assedio prolungato. Ovviamente i suoi vicini, sentendosi minacciati, si rivolsero all’imperatore assiro, provocando nel 701 l’intervento di Sennacherib (704-681), che devastò la regione, espugnando città fortificate quali Lakish nella Shefela, e pose infine sotto assedio la capitale.



L’esercito egiziano giunto in soccorso venne sconfitto in campo aperto, ma le difese della capitale ressero finché non scoppiò un’epidemia tra gli assedianti. Gerusalemme dunque non capitolò, ma dovette pagare un pesante tributo, e gli Assiri dichiararono di aver deportato altri 200.150 abitanti dalle zone circostanti. Si accontentarono poi della fedeltà e del tributo degli ultimi staterelli rimasti indipendenti (oltre a Giuda, anche ‘Ammon, Mo’ab ed Edom in Transgiordania, Gaza e Ascalona in Filistea), perché decisero di concentrare le loro forze direttamente contro l’Egitto. Fu così che Manasse (687-642) vide passare gli eserciti di Esarhaddon (nel 673 e nel 669) e poi di Assurbanipal (nel 663), ai quali dovette fornire assistenza e contribuzioni.

L'espansione Assira prevedeva, dopo le distruzioni della conquista, una fase di ricostruzione e di assimilazione forzata dei popoli assoggettati, ottenuta mediante deportazioni incociate di una parte consistente degli abitanti (le cifre fornite dagli annali assiri, di oltre 40.000 deportati da Israele, e circa 200.000 da Giuda, sembrano abbastanza realistiche), mentre la corte e le elite dotate di competenze specialistiche venivano nel caso trattate a parte. L’assimilazione linguistica, culturale, politica, il più possibile completa, era intesa a trasformare i vinti in assiri a tutti gli effetti, facendo di un regno ribelle una nuova provincia del cosmo soggetto al dio Assur e al re che ne era il braccio armato. Nelle parole di Sargon II:
«Gente delle quattro parti del mondo, di lingua straniera e idioma incomprensibile, abitanti di montagne e pianure, tutti sudditi della luce degli dèi e signore di tutto, io trasportai per ordine di Assur mio signore, e per la potenza del mio scettro. Io li feci diventare di una sola lingua e li insediai lì. Assegnai loro come scribi e sorveglianti degli Assiri, capaci di insegnar loro il timor di dio e del re»
Naturalmente, quello che dal punto di vista imperiale è un processo di assimilazione, dal punto di vista locale è un processo di grave perdita dell’indentità culturale (deculturazione). Al posto degli Israeliti deportati in altre zone, giunsero genti «da Babilonia, da Kuta, da ‘Awwa, da Hamat e da Sefarwayim» [2Re] mentre dai testi di Sargon II sappiamo che deportò in Samaria anche degli Arabi. L’assimilazione linguistica finì per privilegiare l’aramaico, che era allora l’idioma più diffuso nell’impero. Quella religiosa non si basò sull’imposizione della religione assira, ma produsse un diffuso e variegato sincretismo, tra i culti importati dai nuovi venuti, i residui culti "cananei", e una revisione dello yahwismo adattato alle nuove condizioni di coesistenza, revisione che doveva suonare inaccettabile agli yahwisti ortodossi del sud, portati invece ad accentuarne il carattere esclusivo.

Il regno di Giuda ebbe sotto Ezechia (716-687) e Manasse (687-642) un periodo di crescita nelle risorse materiali e nella consapevolezza ideologica, dovute in parte anche all’afflusso di profughi dal Nord (a Gerusalemme la popolazione stimabile passò da 1000 a 15.000 persone nel giro di una sola generazione). Anche le campagne di Giuda raggiunsero nell’VIII secolo la massima densità abitativa, al limite della loro capacità di sostentamento, e lo sfruttamento del pre-deserto richiese l’utilizzazione su larga scala di tecniche di trattenimento di acqua e terra negli wadi percorsi da improvvise piene, tecniche già note dall’inizio dell’età del Ferro, ma impiegate filo allora solo occasionalmente. Anche la vicinanza dell'impero assiro, dopo la mobilitazione militare, dovette avere effetti positivi sullo sviluppo economico e insediamentale.

Ezechia fu però anche autore di riforme religiose, con la soppressione sistematica dei luoghi di culto della religione agraria: "alti-luoghi" (bamôt), stele (massebôt), e alberi o tronchi (ašerôt). Insieme alla ristrutturazione del tempio, era un primo passo per trasformare Yahweh da dio nazionale a dio esclusivo; tuttavia, cessato il momento della mobilitazione anti-assira, il successore Manasse reintrodusse il pluralismo religioso, riedificando luoghi e simboli dei culti della fertilità.

Contemporaneamente alla riforma religiosa, anche il profetismo assume una nuova dignità ideologica e letteraria — per effetto forse anche dell’apporto di profeti in fuga dal Nord dopo la caduta di Samaria. Tra gli autori delle scritture si distinguono in particolare Osea, Michea, e il "proto-Isaia". Secondo Osea (attivo ca. 760-720) Israele era stato distrutto per la corruzione della sua classe dirigente, ma soprattutto per aver tradito la fedeltà a Yahweh — una infedeltà di stampo quasi coniugale. Il testo di Michea (attivo ca. 750-710 e originario di un villaggio contadino di Giuda), pur evidentemente rimaneggiato da interventi successivi, sembra attribuire la rovina soprattutto alla corruzione e all’ingiustizia dei dirigenti. Il "proto-Isaia" (attivo ca. 740-700 e consulente del re durante l’assedio del 701) si scaglia dapprima contro il dilagante latifondismo, poi contro le scelte politiche del re e della corte — troppo inclini a far ricorso a risorse umane (il sostegno dell’Egitto) anziché all’aiuto di Yahweh — e infine, riprende la tradizione degli "oracoli contro le nazioni" di Amos che, al tempo delle guerre aramaiche, deplora e maledice stati e popoli vicini, colpevoli di aver approfittato — ai danni gli uni degli altri, ma in particolare d’Israele e di Giuda — dell’intervento imperiale, tentando di assicurarsi vantaggi che si riveleranno poi illusori. L’intervento assiro viene anzi visto qui come strumento della vendetta divina.

In realtà, invasori e aggrediti, assedianti e assediati, condividevano una stessa base ideologica: l’esito dei conflitti non è determinato soltanto dalle forze militari in campo, ma dal corretto rapporto con le rispettive dività e dai rapporti di forza tra di esse. Per i comandanti assiri, gli avversari sono destinati a capitolare perché insensatamente si affidano o ad elementi umani (le difese materiali, l’aiuto di loro alleati) oppure a divinità che hanno già riconosciuto la supremazia assira e abbandonato i loro fedeli. Tipicamente assira è anche la distinzione (che si manifesta nell’assedio a Gerusalemme) tra i dirigenti "colpevoli" e la popolazione ignara e recuperabile. Per gli assediati, una volta venuto meno il sostegno egiziano (definito «una "canna rotta", che ferisce la mano di chi ci si appoggia») non rimane che l’opzione profetico/populistica: ci si deve affidare unicamente a Yahweh, e ci si può assicurare il suo appoggio solo osservando il "patto" di fedeltà. Una volta tolto l’assedio, Isaia avrà buon gioco a sostenere che solo l’aiuto di Yahweh era stato determinante.

Le successive formulazioni bibliche del patto — a cominciare dal "primo" comandamento: «Io sono il Signore dio tuo, non avrai altro dio all’infuori di me» — riecheggeranno chiaramente le formulazioni assire del giuramento di fedeltà:
«Noi ameremo Assurbanipal re d’Assiria, e odieremo il suo nemico. A partire da oggi e finché vivremo, Assurbanipal re d’Assiria sarà il nostro re e il nostro signore. Noi non metteremo né cercheremo alcun altro re o alcun altro signore per noi».
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L’impero assiro raggiunse il massimo sviluppo con Assurbanipal (668-631), che inviò i suoi generali a conquistare l’Elam a Oriente e l’Egitto a Occidente. Ma già verso la metà del secolo cominciavano a farsi sentire i primi scricchiolii di una macchina imperiale che poteva sostenersi solo grazie ai bottini e ai tributi, proventi delle conquiste esterne. Quando iniziò a perdere il controllo delle province più remote, il suo stesso apparato amministrativo cresciuto a dismisura divenne insostenibile, e una lunga guerra di successione logorò la classe dirigente, le finanze e l’esercito.

Nel 625 Nabopolassar, capo dei Caldei, si fece re di Babilonia e si ribellò, risalendo poi il corso del Tigri e dell’Eufrate, fino a portare il conflitto al cuore dell’impero. A quel punto dagli Zagros scesero in campo i Medi, grandi allevatori di cavalli e abilissimi razziatori che, probabilmente motivati dalla nuova religiosità zoroastriana che proprio in quegli anni si andava diffondendo, devastarono il territorio assiro, distruggendone città e templi (Assur nel 614, Ninive nel 612), per poi ritirarsi nuovamente nei loro territori. Se ne avvantaggiarono i Caldei, che presero il controllo dell’intera Mesopotamia, e quando anche l’ultimo tentativo di arginarli — fatto del faraone Neko — fallì, Nabucodonosor II (succeduto nel frattempo a Nabopolassar) riconquistò tutti i territori ad ovest dell’Eufrate che erano un tempo stati assiri.

Del cinquantennio (ca. 640-590) di allentamento del controllo imperiale cercarono di avvantaggiarsi quelle entità politiche che non avevano subito l’assimilazione assira: la città fenicia di Tiro con la sua estesa rete commerciale, il regno di ‘Ammon (‘Amman, Heshbon), i regni di Cilicia e Cappadocia in Anatolia. Nel regno di Giuda, con Giosia (640-609) proseguì la fase di congiuntura favorevole e la colonizzazione delle zone aride che era iniziata col predecessore Manasse, ma soprattutto il venir meno del controllo assiro rendeva praticabile l’espansione a ovest e a nord, in quel territorio che era stato di Israele. Posti a confronto con le evidenze archeologiche e con l’analisi documentale, i testi biblici sembrano più conformi alle aspirazioni espansionistiche di Giosia che alla realtà dei fatti. Il progetto andò in fumo prima che potesse realizzarsi per la morte dello stesso Giosia e per l’intervento egiziano.

Accadde che nel 18° anno di Giosia (622) il sommo sacerdote Hilqiyahu consegnò al segretario del re Shafan, e questi a sua volta consegnò a Giosia, un manoscritto ritrovato nel tempio di Gerusalemme, e contenente "il libro della Legge" (sefer hattôrah). Giosia — interpreta Liverani — colse quindi l’opportunità (e la mise in pratica con lo stratagemma del ritrovamento dell’antico manoscritto) di sostituire dipendenza e fedeltà al signore terreno, l’imperatore, con quelle al signore divino, Yahweh. Il manoscritto "ritrovato", successivamente soggetto a numerose modifiche e integrazioni, costituirebbe il nucleo fondamentale dell’attuale Deuteronomio, e la sua ideologia si può riassumere nei punti seguenti:
  1. Yahweh è dio unico.
  2. Il rapporto speciale tra Yahweh e il suo "popolo eletto" è basato sul patto, il cui nucleo sono le "tavole della Legge" di Mosè, custodite nell’arca di Yahweh depositata nel tempio sin da Salomone.
  3. Yahweh ha portato fuori dall’Egitto Israele e gli ha dato la terra di Canaan.
  4. Canaan dovrà essere conquistato secondo le procedure della "guerra santa" (herem).
  5. Al popolo incombe l’obbligo di esser fedele a Yahweh e alla sua Legge, e dunque di resistere ad ogni tentazione di apostasia e idolatria.
  6. Il tempio di Yahweh deve essere uno solo, quello di Gerusalemme, "dimora del nome di Yahweh" e alieno da manifestazioni cultuali troppo materiali (iconismo compreso) avvertite come estranee e pericolose.
Di questi, l’ultimo ha un’evidente valenza politica "operativa", il secondo contiene invece il nucleo della rielaborazione storica che ne costituisce la necessaria premessa. Il sesto è anche chiaramente in relazione al primo: un unico dio (Yahweh) in un unico tempio (quello di Gerusalemme): occorreva dunque potenziare le strutture dell’antico tempio (quello che si vuole far risalire al "tempo di Salomone") ma anche smantellare i luoghi di culto non yahwistici (bamôt, massebôt, e ašerôt) non solo nel territorio circostante, ma nella stessa capitale — persino nel tempio "salomonico", sebbene fosse ufficialmente dedicato a Yahweh, c’erano arredi cultuali dei vecchi culti agrari (Ba’al e Asherah), e di divinità astrali (Sole Luna) di derivazione assira. I testi sacri citano anche culti — moralmente condannati — a sfondo sessuale, e persino riti sacrificali (lammolek = "in sacrificio", non "a Molek", divenuto poi "a Moloch"!) di primogeniti neonati che venivano praticati nella valle di Ben-Hinnom (la "Gehenna") subito a sud della città. Occorre però dire che sulla realtà storica di tali sacrifici non v’è unanimità da parte degli storici. Sempre nel contesto di questa riforma centralizzatrice, quella che probabilmente era un’antica festività pastorale, connessa al ritorno dalla transumanza (plenilunio di primavera), con pasto sacrificale di agnello e pani azzimi, venne trasformata nella Pasqua, "ripristinata" da Giosia (con l’avallo del testo ritrovato nel tempio) e legata alla "fuoruscita dall’Egitto" (che alla lettera non era mai avvenuta).

La necessità di retrodatare — retroiettare, nella terminologia di Liverani — ai secoli precedenti il "patto" tra Yahweh e il popolo comportò già ai tempi di Giosia un grande lavoro di rielaborazione del passato (la cosiddetta "storia deuteronomistica") che ci è stato tramandato nei libri di Giosuè, dei Giudici, di Samuele 1-2 e dei Re 1-2 (tenendo conto che in seguito al fallimento dell’impresa dovette essere ulteriormente rielaborata). La sua formulazione originaria doveva infatti partire da Mosè (che aveva stipulato il primo patto) e avere in Giosia l’epilogo positivo, con la fedeltà all’unico dio finalmente premiata dalla stabilità politica e dalla prosperità economica. Figure di riferimento dovevano essere Giosuè (per la conquista della terra di Canaan), David (per l’unificazione politica), Salomone (per la costruzione del tempio). Coerentemente, il "monoteismo retroattivo" dava valutazioni negative (come apostati e traditori del patto) di quei re (alcuni di Giuda e tutti quelli di Israele) che erano stati tolleranti o favorevoli ad altri culti (Ba’al e Asherah). Non c’era quindi da stupirsi che Israele fosse stato travolto dalla punizione divina, mentre Giuda aveva attraversato alterne vicende. La prospettiva era comunque positiva, purché si fosse rinnovata (per quanto tardivamente) l’adesione al patto.

Quando nel 609 il faraone Neko risalì la costa palestinese per portarsi contro i Babilonesi che avevano già travolto l’impero assiro, Giosia tentò di opporglisi, seppure con forze molto inferiori, ma fu sbaragliato, ferito, e morì subito dopo. Dal suo punto di vista, il successo della spedizione egiziana avrebbe ripristinato quella servitù dalla quale Yahweh aveva "portato fuori" (dall’Egitto) il popolo eletto. La stessa fiducia esclusiva e incondizionata in Yahweh lo obbligava adesso ad opporsi. Forse proprio nel libro "scoperto" nel tempio stava scritto (come è rimasto nel Deuteronomio):
«Quando uscirai a battaglia contro i tuoi nemici, e vedrai cavalli e carri e fanti più numerosi dei tuoi, non averne paura, perché Yahweh tuo Dio è con te, lui che t’ha fatto venire dalla terra d’Egitto!»
Sconfitto Giosia, Neko deportò in Egitto l’erede al trono Yoachaz, ma poco dopo fu a sua volta sconfitto dai Babilonesi guidati da Nabucodonosor, che proprio in quell’anno sarebbe succeduto al padre Nabopolassar. Giuda recuperò pertanto fugacemente la sua indipendenza, ma la stagione delle riforme di Giosia si era ormai esaurita con la sua morte, e sotto Yoyaqim (609-598) si assistette a un ritorno del baalismo e di altri culti idolatri. Di questa involuzione si lamenta il profeta Geremia, ma della nuova situazione politica si erano intanto avvantaggiati i sacerdoti, che pretendevano ora di essere i veri interpreti della Legge, scalzando i profeti dal loro ruolo tradizionale di consulenti del re. Il fallimento della riforma fu anche dovuto alla contrapposizione tra due opposte fazioni — quella filo-babilonese e quella filo-egiziana — e alle strumentalizzazioni che entrambe ne fecero. Tuttavia, malgrado il fallimento nell’immediato, il tentativo di Giosia ebbe effetti decisivi sul lungo periodo, quando il tragico epilogo della storia di Giuda fece della rielaborazione deuteronomista e dell’ideologia connessa l’unico appiglio per mantenere quell’unità (etnica e statale) mai realizzata né, prima d’allora, concepita.

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L’esercito neo-babilonese univa all’efficienza della macchina di battaglia e d’assedio assira la mobilità del razziatore, propria dell’origine tribale dei Caldei. La loro fama di essere meno "feroci" degli assiri è dovuta alla diversa strategia di propaganda, nella quale accentuavano la liberazione dei popoli e la tutela dei templi, passando invece in sott’ordine la violenza bellica. Sconfitti gli Egiziani nel 609 a Karkemish e Hamat, Nabucodonosor continuò con campagne annuali a sottomettere tutti i territori della fascia siro-palestinese già conquistati dagli Assiri. Tra i pochi che cercarono di resistere, Tiro capitolò dopo un assedio di ben tredici anni (598-585), per la sua posizione insulare che rese difficile per i Babilonesi applicare le consuete tecniche d’assedio. A Gerusalemme, Yoyaqim, dopo essere stato per tre anni tributario di Nabucodonosor, decise di ribellarsi, ma l’anno stesso (598) morì, e il figlio Yoyakin, appena diciottenne, decise di capitolare subito all’assedio dei Babilonesi, i quali deportarono lui, la corte e gli artigiani, saccheggiarono tempio e palazzo, e lasciarono a governare come loro vassallo suo zio Sedecia (597-586).

La pressione babilonese esacerbava tensioni e conflitti preesistenti tra le diverse entità politiche dell’area, le quali tendevano a radicalizzare il processo di auto-identificazione etnica e a partecipare alle spedizioni babilonesi l’una contro l’altra. Qualcuna di esse pensò di poter fare ancora ricorso all’aiuto egiziano, ma il Faraone «non uscì più dal suo paese» [3]. Traccia di questi conflitti locali è rimasta nei cosiddetti "Oracoli contro le Nazioni" (gôyîm) emessi dai profeti Sofonia, Geremia ed Ezechiele (alla stregua di quanto già accaduto in occasione delle invasioni assire).

Negli anni successivi all’assedio del 598, a Gerusalemme si svolse un acceso dibattito politico tra chi sosteneva la ribellione contro i Caldei confidando nell’aiuto di Yahweh, chi riteneva si dovesse ricorrere piuttosto all’appoggio egiziano, e chi invece — per motivi giuridico-teologici — era assolutamente contrario a infrangere il patto di vassallaggio ai Caldei, giurato in nome degli dèi — il plurale Elohim può essere volutamente ambiguo — sia babilonesi sia locali, e dunque anche in nome di Yahweh. Geremia era tra questi ultimi, e la sua posizione era manifestamente filo-caldea, tanto che durante l’assedio successivo venne imprigionato come collaborazionista (malgrado fosse protetto da influenti funzionari regi) e in seguito godette della protezione dello stesso Nabucodonosor.


Dopo nove anni in cui aveva regnato come vassallo di Babilonia, Sedecia decise di ribellarsi, e Nabucodonosor, che non aspettava altro, invase il paese e pose l’assedio a Gerusalemme, assedio che ebbe una breve interruzione per l’arrivo di un esercito egiziano, ma venne subito ripreso. Dopo due anni di assedio, Sedecia riuscì ad evadere assieme ai suoi figli e al corpo di guardia, ma fu raggiunto presso Gerico, catturato e condotto in presenza di Nabucodonosor, il quale — così raccontano i testi sacri — prima fece uccidere davanti a lui i suoi figli, poi lo fece accecare, e infine lo fece portare a Babilonia.

Comunque sia, priva del re e delle sue truppe scelte, la città resistette ancora pochi mesi, poi i Caldei penetrarono nelle mura, saccheggiarono — per l’ennesima volta! — il tempio, dettero fuoco al palazzo, e infine smantellarono le mura ad evitare future ribellioni. Giustiziarono anche una sessantina di maggiorenti della città e deportarono il resto della popolazione, lasciando sul posto soltanto i contadini delle campagne circostanti. Contemporaneamente, anche gli altri centri del paese subirono analoghe distruzioni. Si salvarono dalla devastazione solo i territori di Beniamino, ma fu proprio l’accentramento delle funzioni politiche e religiose promosso da Giosia a rendere irreparabile il sacco di Gerusalemme.

I Babilonesi lasciarono Godolia, che era stato prefetto del palazzo di Sedecia, come "governatore" (con sede a Mispa) di quel che restava della Giudea, ma dopo pochi mesi Godolia venne ucciso, assieme alla sua corte di Giudei e di Caldei, da un gruppo di congiurati. Scoppiò una sollevazione popolare (per timore delle ritorsioni babilonesi), e i notabili decisero di riparare in Egitto, seguiti da buona parte della popolazione. Geremia, che consigliava invece di rimanere sul posto, non venne ascoltato, e «la Giudea rimase nel caos più totale, senza più classe dirigente e con la popolazione decimata dalla guerra, dalla pestilenza, dalla carestia, dall’emigrazione». In effetti, tutti gli indicatori archeologici segnalano un vero e proprio tracollo demografico, con la popolazione che si ridusse a poco più di un decimo, aggravato dal fatto che scomparvero totalmente proprio gli strati più acculturati.

Mentre la deportazioni assire avevano disperso le "dieci tribù" del nord — e di esse non rimase più traccia — quelle caldee lasciarono dunque le terre conquistate nel totale degrado socio-politico e culturale, ma consentirono in compenso alle élites (quelle deportate in blocco a Babilonia) di mantenere una loro individualità etnico-politica, religiosa, e persino comportamentale. Solo col tempo, i "vuoti" lasciati sul posto furono parzialmente rioccupati dalle popolazioni vicine: edomiti nel Negev, filistei nella Shefela, mercanti fenici e mercenari greci nella fascia costiera.


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[1] Il passo della battaglia di Gibe’on (o Gabaon) del Libro di Giosuè è quello che venne utilizzato per contrastare la teoria eliocentrica proposta da Copernico nel De revolutionibus orbium coelestium (1543), e che in seguito, nel 1615, mise nei guai Galileo con l’Inquisizione.
[2] Del resto, la presenza di paredre per gli dei "nazionali" era piuttosto frequente: Shalash (paredra di Hadad per Damasco), Astarte (paredra di Kemosh per Mo’ab, forse anche di Milkom per ‘Ammon, ma anche di Melqart per Tiro), persino il potente Assur aveva la sua paredra Mulissu [cfr. uniud].
[3] La citazione è tratta da 2 Re.
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Per continuare ad approfondire l’argomento, prosegui la lettura:
Oltre la Bibbia: elaborazioni e rielaborazioni durante l’esilio (parte 2ª)

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