Oltre la Bibbia: elaborazioni e rielaborazioni durante l’esilio (parte 2ª)



SCHEDA DI LETTURA — di Aurelio Rocco Solina

Mario Liverani,
Oltre la Bibbia. Storia antica di Israele,
Laterza 2003.

In questa seconda parte di approfondimento consideriamo in dettaglio i capitoli intermedi tra la prima e la seconda parte del saggio (dal decimo al dodicesimo).

Intermezzo: ‘età assiale’ ed esilio babilonese


Nel VI secolo si attua una svolta, in buona parte del mondo antico, che è stata indicata come "età assiale" [1]. Le formazioni imperiali "universali" (l’impero assiro, poi quello persiano, e i loro analoghi in India e in Cina) rappresentano l’esito finale di una crescita organizzativa avvenuta nei due millenni precedenti, ovvero a partire dalla prima urbanizzazione, con la gerarchizzazione sociale che ne era conseguita. I nuovi fermenti si sviluppano ai margini o in ambienti esclusi dal potere nelle sue forme tradizionali, e in opposizione ad esso. Tra le espressioni principali di questo mutamento, Liverani considera la religione etica (basata sul conflitto tra bene e male, giusto e ingiusto, vero e falso) e il pensiero razionale (il logos, già nel mondo greco arcaico). Entrambe — notiamo — fanno riferimento a una scissione interna dell’uomo, il quale nell’affrontare i problemi dell’esistenza non può più basarsi sulla mediazione di strutture socio-politiche divenute ormai troppo dilatate e inaccessibili al singolo. Lo strapotere raggiunto dall’espansione della macchina bellica e amministrativa su una scala mai raggiunta prima, finisce per sradicare l’individuo dalla rete di corresponsabilità orizzontali (di gruppo o collettività) e verticali (generazionali), per realizzare quella condizione di "schiavitù generalizzata" e di "fagocitazione totalitaria" che richiederà, per reazione, lo sviluppo di una nuova identità umana, in grado di resistere alla pressione esterna.

Il racconto biblico presenta il monoteismo come già compiuto sin dalle origini della storia di Israele, ma il modo in cui Yahweh si presenta a Mosè rivela un approccio logico-astratto del tutto anacronistico all’epoca mosaica, e assonante invece con taluni aspetti del pensiero greco:
«Andrò dai figli di Israele e dirò loro: "Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi". Ma essi mi chiederanno qual è il suo nome: cosa devo rispondere? Dio disse allora a Mosè: "Io sono colui che sono!". E aggiunse: "Dirai ai figli di Israele: Io-sono mi ha mandato a voi"»
In realtà, l’emergere del monoteismo è l’esito di un lungo processo. Anche il tentativo di collegarlo alla rivoluzione monoteista del Faraone "eretico" Amenophi IV (XIV sec.) sarebbe — argomenta Liverani — un modo per salvare l’antichità "mosaica" del monoteismo e la sua invenzione "puntiforme" anziché processuale.

Il politeismo (strutturato in un pantheon) si era formato nell’età del Bronzo in parallelo alla cosiddetta "rivoluzione urbana", rappresentava cioè a livello simbolico la complessità e la diversificazione socio-economica, e legittimava al tempo stesso la disuguale distribuzione delle risorse tra i vari strati sociali in funzione delle rispettive competenze. Con la crisi del Tardo Bronzo e il passaggio all’età del Ferro, erano venute alla ribalta divinità diverse da quelle cittadine. I primi fedeli di Yahweh erano ben consapevoli dell’esistenza di molti altri dèi, tutti ugualmente esistenti e "veri". L’enoteismo — esiste un dio unico per "noi", ma non in assoluto — è legato al carattere di "dio tribale" che diviene "nazionale" (Yahweh per Israele, Kemosh per Mo’ab, Milkom per gli Ammoniti ecc.) ed è tipico dell’età del Ferro (anche se, come abbiamo visto, non esclude ancora la presenza di una "paredra"). Un secondo passaggio è conseguente all’impatto col dio Assur e con l’imperatore assiro, che richiede una fedeltà univoca ed esclusiva. Come abbiamo già visto, la sostituzione di un "imperatore unico" con un "dio unico" è l’operazione alla base delle riforme di Giosia. E del resto, anche nella Babilonia di età tarda, tutte le divinità cominciavano ad essere identificate con funzioni o aspetti diversi di Marduk (si parla in questo caso di "riduzionismo"):
«Urash è Marduk della piantagione
Lugalidda è Marduk dell’abisso
Ninurta è Marduk del piccone
Nergal è Marduk della battaglia
Zababa è Marduk della guerra
Enlil è Marduk della signoria e della consultazione
Nabu è Marduk della contabilità
Sin è Marduk che illumina la notte
Shamash è Marduk della giustizia
Adad è Marduk della pioggia
Tishpak è Marduk delle truppe
il Grande Anu è Marduk del […]
Shuqamuna è Marduk del contenitore
[…] è Marduk di ogni cosa»
L’esistenza però di diversi centri urbani e di santuari, ciascuno caratterizzato da una propria divinità, aveva frenato questa tendenza all’unificazione. Il passaggio al monotesismo "puro" avviene invece in un ambito ristretto (quello dei giudei deportati a Babilonia) forse proprio per l’esigenza di coniugarlo col mantenimento di un’identità "nazionale" e di resistere all’assimilazione culturale. Nelle parole dello stesso Liverani:
«L’emergere del monoteismo non unifica le varie personalità divine, ma le annulla [sic!]: rinuncia alle loro caratterizzazioni distintive per puntare su una caratterizzazione globale del divino che non può che essere di carattere etico. Siamo di fronte ad una vera e propria svolta» 
I governanti, che fino allora si erano proposti quali mediatori (gli unici legittimati) dei rapporti tra la società umana e la sfera divina, cessano da questo punto di vista di essere essenziali, e si cerca un rapporto più "diretto" tra l’individuo e la divinità. Naturalmente il cambiamento è graduale e non esente da commistioni, così la diversificazione sociale si ripropone anche in alcune religioni monoteiste con la proliferazione di "demoni" o di "santi" (come nel cristianesimo), mentre il politeismo potè sopravvivere ancora per secoli a livello "cerimoniale".

Questo non avvenne per Israele, la cui religione già conteneva importaqnti elementi etici non-cerimoniali, quali l’aniconismo, la proibizione di usare nel culto sostanze inebrianti, quella del culto dei morti, o di consultazioni oracolari (se non di Yahweh tramite i suoi profeti), ma si distingueva inoltre per il nesso diretto (senza il tramite di un re) tra la Legge e Dio, nesso implicito nella sostituzione del "patto con Dio" al "patto con l’Imperatore". Naturalmente, un "dio unico", nel contesto di una religione etica, tende a divenire un "dio universale", cioè "di tutti", in quanto i valori etici di base sono (o possono essere) universalmente condivisi:
«Si aprono così, già col Deutero-Isaia e poi in particolare col Trito-Isaia, le prospettive del monoteismo universale, e del suo strumento di attuazione che è il proselitismo» 
È dunque già insita in questa evoluzione la crisi esistenziale o di identità per il "popolo eletto", crisi che potrà dar luogo a un formalismo esasperato, a chiusure nel fanatismo, oppure a scismi e a fenomeni di rigetto, come difatti avvenne tra le diverse fedi che si svilupparono da quella originaria.

Finché non avvenne il tracollo finale, comunque, anche la religione degli israeliti era stata una tipica religione "cerimoniale", basata sul rapporto tra tempio e palazzo reale, tra re e sacerdozio, con regolari atti di culto, quotidiani e calendariali, a testimonianza del corretto rapporto tra divinità, re, e popolo. La fine dell’indipendenza politica, la distruzione del tempio (ormai divenuto unico), e la deportazione in un ambiente in cui erano diffusi culti stranieri e non condivisibili, provocarono due opposte tendenze: da un lato, quella a una religiosità meno legata dalla cerimonialità pubblica, ma più interiore, e centrata su valori etici personali; dall’altro, funzionale alla necessaria strategia di auto-identificazione propria della comunità degli esuli, quella ad accentuare una cerimonialità formale, e al limite formalistica, che serviva da segno distintivo degli appartenenti alla comunità. Di quest’ultima, i "segni" più evidenti erano la circoncisione e l’osservanza del sabato, ma ancor più significativa era l’attenzione per la purità, e il terrore della contaminazione, che sfociò in un ritualismo esasperato ed ossessivo.

In parallelo alla contrapposizione tra religiosità interiore e ritualità formale, tra le tematiche che si svilupparono nel corso dell’età assiale vi è anche quella della responsabilità individuale, contrapposta, nelle sue accezioni giuridiche ma anche generalmente etiche, a quella sociale. Mentre in uno scenario politico ristretto (dalla tribù, alla città di dimensioni ridotte, al piccolo stato, situazioni che l’autore definisce di "potere vicino") l’individuo è portato a sentirsi partecipe delle decisioni politiche e della sorte della comunità di appartenenza, in un "impero universale" e in un tessuto sociale disgregato (situazione di "potere lontano") tale «identificazione tra le sorti personali e quelle della comunità politica di appartenenza vengono meno», e ciò vale tanto per la comunità "orizzontale" (gruppi, villaggi, città) quanto per quella "verticale" (ovvero generazionale, per cui i figli sono responsabili delle colpe dei padri "fino alla settima generazione"). Nell’esilio, entrambe subiscono un processo di disgregazione, e l’individuo, non più inserito e protetto da una compagine politica e da un tessuto sociale compatto, tende ad assumersi tutte le sue responsabilità personali, ma non quelle altrui. Al "vecchio patto", impostato sulla responsabilità collettiva di tutto il popolo, subentra un "nuovo patto" (quello prospettato dal Deutero-Isaia) che comporta una punizione o una retribuzione personale.

Anche questo mutamento di prospettiva non è privo di conseguenze, perché dà l’avvio a un dibattito su giustizia e ingiustizia che non risparmia neppure la divinità (per le punizioni collettive inferte in passato e nel presente, o per aver salvato singoli "giusti", fossero anche pentiti in extremis):
«Nel popolo si insinua la convinzione che "il comportamento del Signore non è giusto"» (Ezechiele)
All’opposto, alcuni passi del Deutero-Isaia capovolgono la logica della responsabilità e della giustizia: la salvezza dell’intero popolo sarà resa possibile solo se il "servo di Yahweh" (prefigurazione, secondo i cristiani, di Cristo) assumerà su di sé le colpe del popolo intero, per quanto egli ne sia personalmente innocente.

I sostenitori della responsabilità individuale preferiranno in genere rimanere dove si sono stabiliti (a Babilonia, in Egitto, o altrove) e dove potranno continuare a godere dei frutti del proprio lavoro e dei propri affari personali. La posizione ufficiale (deuteronomista e poi sacerdotale), che insisterà sui princìpi della responsabilità collettiva e intergenerazionale, e che li applicherà massicciamente nella sua retrospettiva storiografica, prevarrà invece tra coloro che al termine dell’esilio decideranno di fare ritorno alla "terra promessa".

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L’élite politica deportata in blocco a Babilonia poté mantenere una sua identità comunitaria, e Yoyakin — che come abbiamo visto si era arreso per tempo agli assedianti — venne trattato come prigioniero di grande riguardo e considerato, tanto dalla corte quanto dagli esuli, "re di Giuda". Analogo ruolo di rilievo ebbero i suoi discendenti, e sulla "casa di David" erano comunque riposte le speranze di un ritorno in patria e di una ripresa "nazionale" che non poteva ormai che accomunare Giuda e Israele. Accanto alla casa reale persistevano anche organismi collegiali e di categoria: l’assemblea degli "anziani di Israele", ma anche sacerdoti e profeti. Questi erano tuttavia privi di strutture logistiche, poiché la speranza in un rapido ritorno e la stessa riforma centralizzatrice voluta da Giosia scoraggiavano la costituzione di strutture religiose locali.

Paradossalmente, era stata proprio la conquista imperiale a tempi diversi, prima del Nord ad opera degli Assiri e poi del Sud ad opera dei Caldei, a favorire una maggiore integrazione tra le "dodici tribù": se infatti le "dieci tribù" del Nord erano state quasi completamente disperse dalla deportazione assira, un discreto numero di fuggiaschi — soprattutto scribi e sacerdoti — avevano riparato nel regno di Giuda portando con sé la tradizione della "casa di Giacobbe". Deportati poi tutti insieme a Babilonia e dintorni (in alcune cittadine o villaggi abbandonati che i Caldei intendevano ripopolare), avevano mantenuto una marcata identità pan-israelitica, riscontrabile dalla continuità nell’uso di nomi ebraici [2], e rafforzata da pratiche endogamiche e religiose che escludevano la mescolanza etnica. I deportati comunque non vennero utilizzati soltanto per il ripopolamento e il rilancio delle attività agricole; molti di essi (come del resto anche emigrati di altri popoli siro-palestinesi) riuscirono ad inserirsi nel mondo finanziario e imprenditoriale, tanto è vero che negli archivi della "banca" familiare dei Murashu a Nippur (a metà del V sec., ovvero un secolo dopo le deportazioni) ancora compaiono persone e famiglie dai nomi inequivocabilmente giudaici [3]. L’integrazione nel nuovo contesto sociale richiese ovviamente alcune forme di adeguamento culturale, come risulta dall’adozione dell’aramaico (anche nella scrittura) e dei nomi dei mesi babilonesi (in luogo di quelli in uso a Canaan), tuttavia gli esuli a Babilonia riuscirono a mantenere la loro identità culturale assai meglio di coloro che erano rimasti in Giudea, proprio perché l’aspettativa di un ritorno in patria fece sì che accentuassero le loro tradizioni e che registrassero scrupolosamente discendenze e proprietà in appositi documenti da utilizzare al rientro dall’esilio.


Oltre ai deportati a Babilonia esistevano altri gruppi, forse altrettanto numerosi, di emigrati che per scelta o per costrizione si erano stabiliti in altri paesi, per esempio in Egitto, dove già dal VII secolo si trovavano sia una consistente manodopera agricola, sia truppe mercenarie utilizzate tanto in operazioni belliche quanto come guarnigioni stabili (questa emigrazione consente a Liverani di esprimersi in termini di "diaspora antica" — cioè già in epoca babilonese). Il caso meglio documentato è quello dell’isola di Elefantina (all’epoca chiamata Yeb, nell’Alto Nilo), dove sono stati rinvenuti numerosi papiri e ostraka in aramaico (del V sec.) e dove — a differenza che a Babilonia — esisteva un tempio dedicato a Yahweh; ma papiri in aramaico sono stati rinvenuti pure in altre località, come Hermopoli e Migdol. Il caso del tempio di Elefantina (che peraltro ospitava pure altre divinità) non è unico: anche la comunità di Samaria ne aveva uno, e contestava le pretese monopolistiche di Gerusalemme. L’esistenza di altri templi evidenzia che le riforme accentratrici di Giosia non erano state recepite da tutto il "popolo", ma solo dal filone deuteronomista e profetico che si trovò a prevalere tra gli esuli a Babilonia. Questi esercitarono tuttavia un potere di attrazione su alcuni gruppi di emigrati volontari in altri paesi, con la prospettiva di un riscatto "nazionale".

Oltre alla contrapposizione tra diverse strategie, si sviluppò tra gruppi di esuli e gruppi di "rimanenti" (coloro che, sfuggiti alla deportazione, erano rimasti nel territorio di Giuda) un’accesa polemica su quali dovessero essere considerati gli autentici eredi della nazione giudeo-israelitica. Il termine "resto" (sittu) è presente anche nei testi assiri e babilonesi dove di norma sta appunto ad indicare, come residuo di una sequenza di misure adottate (uccisioni, riduzioni in schiavitù, deportazioni), coloro che rimangono sul posto. Trasposto nella concezione "etica" della volontà divina, esso viene ad assumere il senso aggiuntivo di distinguere coloro che hanno infranto il patto (e vengono per questo eliminati) da coloro che sono innocenti perché rimasti fedeli (e perciò salvati). Ovviamente ciascuna delle parti riterrà di essere sul versante "buono" e accuserà gli altri di aver abbandonato la fede e di aver originato la punizione divina. Al termine dell’esilio si contrapporranno quindi i "reduci" (dall’esilio babilonese) e i "rimanenti", considerati dai primi alla stregua di occupanti abusivi (una storia che sembra riproporsi anche a distanza di secoli).

L’elaborazione ideologica degli esuli babilonesi seguì due distinte direttrici: se la riscrittura del passato ebbe conseguenze profonde e durature, un’efficacia ben più immediata ebbero le profezie di Ezechiele (deportato tra i primi, assieme a Yoyakin), e del cosiddetto Deutero-Isaia (attivo invece una generazione dopo, alla vigilia dell’avvento di Ciro); entrambi si basavano sulla linea interpretativa già sviluppata nel VII secolo, e poi fatta propria da Geremia, adattandola alla nuova situazione dell’esilio: il fallimento del progetto di Giosia e il disastro successivo non dimostravano affatto la superiorità degli dei stranieri (babilonesi) su quello ebraico; al contrario, era stato proprio Yahweh a usare i Babilonesi per punire i tradimenti del suo popolo, e se dunque si voleva rimediare, non v’era altra via che rinsaldare ancor di più la fedeltà a Yahweh, e riconquistare la sua benevolenza per assicurarsi in tal modo la prosperità futura. Nella predicazione di Ezechiele, la necessità di unificare Giuda e Israele — già obiettivo politico al tempo di Giosia — scaturisce naturalmente dalla volontà divina:
«Così parla il Signore Yahweh: Ecco che io prenderò il legno di Giuseppe che sta nelle mani di Efraim, e le tribù d’Israele che sono collegate con lui, e ci metterò insieme il legno di Giuda e ne farò un solo pezzo di legno, e saranno una cosa sola in mano mia» (Ezechiele)

Sul vecchio patto, che ha avuto un esito disastroso, andrà modellata una "nuova alleanza" (berît hadašah) che dovrà essere più spirituale della precedente, più personale, senza intermediazione regia e senza scadenza, e dunque con un carattere più escatologico e utopico che immediatamente politico. Il suo carattere utopico trova del resto espressione nell’edificazione di un "nuovo tempio" — il secondo — la cui struttura, dimensioni e centralità rispetto alle "dodici tribù" non hanno nulla di realistico [della disposizione delle tribù attorno al Tabernacolo, Liverani fornisce nel suo volume una versione leggermente differente da quella riportata qui in figura, con alcune tribù scambiate di posto, tuttavia lo schema complessivo è il medesimo].

Il Deutero-Isaia (attivo durante il declino babilonese) spinge invece l’elaborazione ideologica in senso universalistico (e meno politicamente realizzabile): accentuando l’idea di uno Yahweh creatore del mondo, lo concepisce non più come dio esclusivo per i suoi fedeli, ma come dio unico universale che controlla tutto il corso della storia e al quale tutti i popoli devono sottomettersi:
«I contadini d’Egitto e i mercanti di Kush, i Sabei d’alta statura sfileranno davanti a te e apparterranno a te, ti seguiranno e sfileranno incatenati. Si inchineranno davanti a te e ti pregheranno: Non c’è Dio che con te, tu sei senza eguale, non c’è altro Dio!» (2 Isaia)
Non stupisce che, coerentemente con questa impostazione, il Deutero-Isaia vedesse in Ciro — un re di taglia sovra-nazionale — il "messia" di Yahweh non solo per Israele ma per tutte le nazioni.

L’aniconismo che caratterizzava la fede in Yahweh impedì ai conquistatori di trasportare a Babilonia — com’era loro consuetudine — i simboli delle divinità del popolo sconfitto, ma rendeva anche impraticabile un loro recupero da parte dei vinti. La distruzione del primo tempio — nel quale del dio invisibile ma presente esistevano soltanto dei supporti vuoti (l’arca, il trono) — rese necessaria una nuova elaborazione della sua "collocazione", tema sul quale presero corpo due nuove teologie: quella del "nome" (šem) propria della corrente deuteronomistica, e quella della "gloria" (kabôd) propria di Ezechiele e della corrente sacerdotale. Entrambe miravano a conferire alla presenza divina nel tempio una connotazione meno materiale, ed entrambe facevano riferimento, in un modo o nell’altro, alla fraseologia regale corrente: "stabilire il nome" come erigere materialmente una stele celebrativa, ma anche metaforicamente come rinomanza, fama; "gloria" come una sorta di «aureola luminosa che incute terrore», prerogativa della divinità che assicura al re sostegno, forza e potenza. Analogamente, è sempre in seguito alla disfatta materiale che l’epiteto di Yahweh Seba’ot — in origine "dio delle truppe (vittoriose)" — diminuisce la sua concretezza (e limitatezza) materiale divenendo "dio delle schiere (celesti)" e quindi, in certo modo, dell’intero universo.

Come la rielaborazione teologica durante l’esilio, anche quella storiografica risentì dei modelli babilonesi, in particolare per la redazione delle cronache: l’uso di riferimenti incrociati per i regni d’Israele e di Giuda è analogo a quello della "Storia sincronica" e della "Cronaca P", che narrano le vicende dei regni d’Assiria e di Babilonia ponendo in parallelo le rispettive sequenze dinastiche. Analoghe sono anche le espressioni usate in modo ricorsivo per descrivere il luogo di sepoltura dei re (del tipo «Roboamo si coricò coi suoi padri e fu sepolto nella città di David»). E in qualche misura analoghe sono anche le modalità di giudizio dei singoli regnanti sulla base dell’applicazione dei princìpi fondamentali del culto religioso (dove l’eliminazione o meno dei luoghi di culto non yahwisti sostituisce la corretta celebrazione delle feste religiose babilonesi o il regolare approvvigionamento del santuario di Marduk).

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Per buona parte del Vicino Oriente, la prima metà del VI secolo rappresenta una fase di profonda depressione che, sebbene non sia ancora riconosciuta dagli studiosi quale paradigma condiviso, è paragonabile alla grande crisi che nel XII secolo contraddistinse il passaggio dall’età del Bronzo all’età del Ferro. Mentre quella però aveva interessato in primis le condizioni materiali dell’esistenza, questa coinvolse soprattutto le condizioni ideologiche. Inoltre, a differenza di quella, la nuova crisi non fu uniforme su tutta l’area geografica: gli antichi nuclei nei quali si erano sviluppate l’agricoltura irrigua e la prima urbanizzazione rimasero densamente abitati, invece le zone più periferiche e quelle di passaggio (quali appunto la Palestina) ebbero un vero e proprio tracollo, riscontrabile sia sul piano insediamentale sia su quello amministrativo. Collassi analoghi si riscontrano per esempio in Anatolia centrale ed orientale con la scomparsa del regno di Frigia (quella nota per la favolosa storia di re Mida), e nella valle dell’alto Eufrate, con la rovina dei grandi centri neo-hittiti (da Melid a Samsat/Kummukh a Karkemish); in Armenia, dove il regno di Urartu scompare improvvisamente nel nulla, mentre nell’Azerbaijan iraniano svanisce la cultura dei Mannei; e persino in Media, dove vengono abbandonate le cittadelle cerimoniali (Godin Tepe, Nush-i-Jan, Baba-Jan), fiorenti nell’VIII-VII secolo. L’Assiria, che coi 300.000 abitanti della capitale Ninive e con i suoi fastosi palazzi imperiali s’era venuta a trovare nel VII secolo al centro del mondo, era rimasta totalmente devastata dopo l’invasione dei cavalieri Medi. In molti casi, le rovine delle grandi città e dei palazzi reali dell’età del Ferro II vengono occupati da gruppi di squatters [4] che vi trovano un precario rifugio.

Un quadro della situazione è fornito involontariamente da un testo di Nabucodonosor che nel descrivere le partizioni amministrative del regno neo-babilonese elenca una trentina di governatori di distretti basso-mesopotamici — il nucleo del regno — seguiti poi da alcuni re (vassalli) di città della costa mediterranea (quali Tiro, Sidone, Arwad, Gaza, Ashdod). I territori intermedi, presumibilmente affidati a funzionari di rango minore, non vengono neppure menzionati, quasi costituissero un unico enorme deserto che separava le zone più densamente abitate ed urbanizzate. Non deve stupire che, vista da Babilonia (e quindi anche dagli esuli), «la Palestina sembrasse una terra "vuota", un paese di miserabili squatters accampati sulle rovine delle antiche città, infestato dalle incursioni dei nomadi, un paese abbandonato da Dio e dagli uomini».

Allo spettacolo di abbandono e degrado dei territori siro-palestinesi — soprattutto visti con gli occhi degli esuli — ma anche in qualche misura alla situazione che questi trovarono nello stesso paese di Babilonia (antiche città in rovina da ripopolare, canalizzazioni in dissesto da ripristinare ecc.) si dovettero ispirare alcune leggende bibliche, che non hanno valore storico se non in relazione al periodo e all’ambiente in cui furono concepite o rielaborate.

L’origine babilonese della storia biblica del diluvio universale è ben nota sin da quando (nel 1872) George Smith rintracciò, in una tavoletta proveniente dalla biblioteca di Assurbanipal, il racconto babilonese del diluvio. Che si tratti di una derivazione letteraria (e non di una comune origine da una "memoria" plurimillenaria) è dimostrato dalle numerose coincidenze con le versioni babilonesi del mito, conservate nei poemi di Atram-khasis e di Gilgamesh [5]. L’idea stessa di una crescita del livello delle acque fino a sommergere tutte le terre risulta assai più credibile in ambiente mesopotamico (una piana alluvionale circondata da montagne) che in quello siro-palestinese (colline e montagne). Del resto ogni anno (nei mesi di aprile e maggio) il Tigri e l’Eufrate già fuoruscivano dal letto naturale per inondare la pianura, e la situazione di degrado in cui si trovavano le antiche opere di canalizzazione (cui i re neo-babilonesi tentavano di porre rimedio) poteva provocare, in caso di piene eccezionali, l’allagamento di interi distretti. Il diluvio quindi non è "spiegabile" come rielaborazione della memoria di una (inesistente) catastrofe preistorica, ma è la trasformazione di un evento naturale ricorrente in «un archetipo mitico di proporzioni estreme», un «mito di fondazione» che diviene portatore di un insegnamento morale, il primo episodio della ricorrente punizione divina contro l’umana violenza, negatività che può essere risolta in positivo, come risulta anche confermato dal dettaglio conclusivo dell’arcobaleno quale indicatore di rasserenamento (probabile aggiunta di epoca post-esilica, giacché s’ambienta assai meglio in Palestina, terra di agricoltura pluviale, che in Babilonia, terra di agricoltura irrigua).


Un altro esempio è il mito della "torre di Babele": nel piatto paesaggio babilonese, oltre a città densamente abitate e a templi funzionanti, si ergevano anche edifici in rovina e ruderi immani, tra cui numerose ziqqurat (alti edifici templari a gradoni) edificate sin dalla fine del III millennio e continuamente restaurate nel corso dei secoli, ma infine degradate a ruderi monumentali. L’uso del mattone crudo rendeva del resto l’alternarsi di degrado e restauro un’esperienza corrente, corrispondente a una "filosofia della storia" che considerava la periodica rovina come inevitabile e strutturale. Nel folklore popolare, il rudere (effetto di un degrado successivo all’edificazione) può essere inteso alla rovescia come costruzione incompiuta, richiede dunque una spiegazione del perché la costruzione non fu completata e rimase maledetta per sempre. Il breve racconto della torre di Babele si inserisce chiaramente in questa tipologia di storie: simbolo dell’empia presunzione umana, la costruzione rimase incompiuta perché bloccata dalla divinità che mescolò le lingue rendendo impossibile il lavoro. Vi si innesta quindi, come nel caso precedente, un insegnamento morale, collegando la grandiosità del monumento alla presunzione e alla prepotenza imperiali, e vi confluisce anche l’esperienza dei deportati, di origini e lingue diverse (ebrei, aramei, anatolici, iranici), utilizzati dai Babilonesi come manodopera per opere edilizie, agli ordini di sorveglianti che parlavano un’altra lingua ancora. Era un’antica idea (addirittura sumerica), che la pluralità delle lingue fosse effetto del degrado storico e che nel mondo perfetto, com’era uscito dall’ordinamento divino, tutti gli uomini parlassero una sola lingua. Anche la falsa etimologia del nome di Babele — luogo di confusione (balal), com’è inteso ancora ai nostri giorni, anziché "porta di Dio" (bab-ili) — permette di datare il racconto alla seconda metà del VI secolo.

Il "giardino dell’Eden" nel quale è ambientata la storia biblica di Adamo ed Eva risale invece alla Babilonia d’età persiana (il termine ebraico pardes, babilonese pardesu "parco", deriva dal persiano pairidaeza "recinto") ma ha origini ancora più antiche nell’Egitto del Nuovo Regno, dove Tuthmosi III (verso il 1450) aveva raccolto in una sorta di "orto botanico" tutte le piante esotiche raccolte nelle spedizioni militari in Siria e in Nubia. Nella Babilonia del tempo degli esuli, esistevano fattorie agricole (con palme da datteri, alberi da frutta, e colture a terra di cipolle, lattughe, legumi) servite da canaletti d’irrigazione e recintate a protezione da furti e danneggiamenti di uomini e animali. Il modello ideale di queste normali unità produttive era però il giardino regio, che concentrava alberi e piante ornamentali e animali ed uccelli esotici. Nel racconto biblico un giardino simile fornisce l’ambientazione per l’ennesima ricorrente vicenda di trasgressione e punizione, collocata questa volta all’origine stessa dell’umanità. Il "paradiso" diviene dunque il simbolo di una condizione esistenziale, segnata dalla contrapposizione di inclusione/esclusione, protezione/esposizione, agio/fatica. Ma è anche espressione della vana ricerca dell’immortalità, ricorrente nella tradizione babilonese, che la ricollegava alle mitiche figure di Adapa e di Gilgamesh. Mentre però entrambi, non riuscendo ad ottenere la vita eterna, dovettero accontentarsi di un dono consolatorio (la pratica cultuale per il primo, prototipo del sacerdote, la fama per il secondo, prototipo del re), invece Adamo (e insieme a lui, Eva), prototipo dell’umanità tutta, ottenne — sotto forma di "maledizione"! — la sopravvivenza, non per il singolo individuo ma per l’intero genere umano, basata sulla riproduzione sessuale [6] e al prezzo della sofferenza e del duro lavoro:
«Alla donna disse: "Moltiplicherò le tue doglie e le tue gravidanze, nel dolore partorirai figli!" […] All’uomo disse: "[…] Maledetta sia la terra a causa tua: nel dolore ne trarrai sussistenza per tutti i giorni della tua vita […] mangerai pane col sudore del tuo volto, finché tornerai alla terra perché da essa sei ricavato. Tu sei polvere e tornerai in polvere!"» (Genesi)


Un discorso a parte merita la "tavola dei popoli" (inserita in Gen. 10). Per le genti d’origine tribale, era abituale rappresentare i rapporti politici tra gruppi "etnici" in termini di parentela naturale o acquisita, elaborando leggende fondanti che giustificassero i rapporti di amicizia o di rivalità tra genti vicine. Ovviamente, al mutare dei rapporti anche tali leggende dovevano essere continuamente adeguate (anche retroattivamente), ma in età pre-esilica erano sempre rimaste confinate all’ambito palestinese. Furono le deportazioni, e la conseguente dispersione, a richiedere un allargamento dello scenario a tutte le genti esistenti al mondo allora conosciuto nonché — a causa dell’andamento esponenziale dei legami di parentela — una maggiore profondità diacronica delle genealogie, pur dovendo obbligatoriamente mantenere Noè — l’unico scampato al diluvio universale — quale antenato unico e quindi progenitore comune. La tripartizione tra "figli di Yafet", "figli di Sem", e "figli di Cam" corrisponde grosso modo alle sfere di egemonia meda, caldea ed egiziana, il che consentirebbe di datare la "tavola" intorno al periodo 600-550 (subito dopo il crollo dell’impero assiro). Alcune stranezze nella nomenclatura e nei legami di parentela fanno tuttavia supporre «qualche faticoso percorso redazionale». In ogni caso la "tavola dei popoli" non è neppure un documento di origine specificamente israelitica — Giuda e Israele non vi compaiono neppure.

Il sistema delle "generazioni" (tôledôt) consente di collegare Noè "a monte" con Adamo, il primo uomo, ma soprattutto "a valle" alle genealogie tribali israelitiche. Esso assolve dunque una funzione storiografica, sia pure di carattere mitico. Questo interesse genealogico, peculiare del VI secolo [7], non è limitato al Vicino Oriente. In Grecia, le prime "Genealogie" note, quelle di Acusilao di Argo e quelle di Ecateo di Mileto, furono scritte tra il 550, e il 490. L’altra forma embrionale di storiografia (che sembra originarsi anch’essa nel mondo greco) assume il carattere dell’inventario geografico ("periegesi") e trova una corrispondenza nelle "mappe mentali" che sono facilmente ricavabili dalla descrizione di Ezechiele della rete commerciale di Tiro. Non a caso entrambi gli strumenti vengono messi a punto dopo il crollo dell’impero "universale" assiro, come a sopperire a quella controllabilità di tipo amministrativo che si era persa con la crisi e che verrà ripristinata soltanto sotto l’impero persiano a partire da Dario. Anche nella Babilonia caldea e nell’Egitto saitico — i superstiti "nuclei forti" della statalizzazione — si assiste parallelamente ad un accentuato interesse per il passato e per l’archeologia, ma con la prospettiva di ripristinare la grandezza del passato. In entrambi i casi si tende ad adottare, nelle arti figurative, in architettura, in letteratura e nella stessa paleografia, uno stile arcaizzante, recepito come "classico". Nel palazzo reale della Babilonia caldea venne istituto un "museo" con pezzi antichi, e i re intrapresero "scavi archeologici" alla ricerca di iscrizioni di fondazione dei re di Akkad. Non mancarono neppure falsificazioni — più o meno "pie" — volte a dotare i patrimoni templari di antichissime "carte di fondazione" [8].

Nei cinquant’anni che seguirono al crollo dell’impero assiro vi fu un’ulteriore espansione dell’elemento nomadico-tribale, che aveva già esercitato nei secoli precedenti una pressione (percepita come minacciosa) verso le terre agricole e urbanizzate, ma era cresciuto nel frattempo per capacità militari e aggregazione politica, e d’altra parte non era più trattenuto dall’efficiente macchina difensiva e punitiva dell’impero. Le due componenti principali erano costituite dalle genti iraniche sulle alte terre del nord, e delle genti arabe nel deserto siro-arabico. Alla grande invasione dei Medi — che era stata determinante per il crollo stesso dell’impero — si aggiungevano notizie più o meno fantasiose su quelle di Cimmeri e Sciti, dando forma nell’immaginario alle "orde settentrionali" che minacciavano l’ordine e la stessa sopravvivenza dei territori invasi. Il "nemico dal nord" era stato una costante nella storia della Mesopotamia, fin dai tempi del crollo della dinastia di Akkad sotto i colpi dei Gutei, discesi dai monti Zagros. In Palestina il pericolo delle tribù nomadi degli altipiani del nord era più remoto, ma paradossalmente si fondeva con la disastrosa esperienza delle spedizioni militari prima assire e poi babilonesi, ed è in questa forma che trovò espressione nel noto passo di Ezechiele (38-39) su Gog e Magog [9]:
«Dirai a Gog: così parla il Signore Yahweh. In quel giorno, quando il mio popolo Israele abiterà in sicurezza, ti metterai in strada, lascerai la tua sede all’estremo nord, tu e i popoli numerosi che sono con te, tutti montati a cavallo, truppa enorme, armata grande. Tu verrai contro Israele mio popolo. Sarai come una nube che ricopre la terra. Sarà alla fine dei giorni, quando io ti condurrò contro il mio paese, affinché le nazioni mi conoscano, quando avrò manifestato la mia santità ai loro occhi, per mezzo di te, Gog!» (Ezechiele)

Rispetto alle tribù del nord, i nomadi cammellieri del deserto arabico erano più integrati per commerci e frequentazioni di antica data, e quindi percepiti come assai meno minacciosi. Le loro basi in Arabia — a Teima, a Duma — attraversano nel VI secolo un momento di grande espansione, tanto che il babilonese Nabonedo (555-539), l’ultimo re caldeo, cercherà di inglobarle organicamente nel regno ormai traballante. Ma le deportazioni imperiali dovettero lasciare il campo libero alle infiltrazioni delle tribù arabe nelle terre di ‘Ammon, di Mo’ab e di Edom, tanto da motivare il seguente oracolo, sempre di Ezechiele (25:8-11):
«Così parla il Signore Yahweh. Poiché Mo’ab e Se’ir hanno detto: "Ecco che la casa di Giuda è come tutte le altre nazioni", ecco che io aprirò le costole di Mo’ab e annienterò le sue città entro il suo confine […] Lo consegnerò in proprietà ai figli dell’Oriente [= gli Arabi], invece che ai figli di ‘Ammon, affinché non ci si ricordi più dei figli di ‘Ammon tra le nazioni. E anche di Mo’ab farò giustizia, e si saprà che io sono Yahweh!» (Ezechiele)

Corrispondentemente, Ismaele diverrà per Israele un "parente" più prossimo (fratellastro) di Mo’ab e di ‘Ammon (cugini di secondo grado). Lo schema genealogico non rispecchia dunque l’epoca monarchica, ma l’epoca della diaspora e del ritorno, con gli "Ismaeliti" pienamente inseriti nelle vicende palestinesi. Del resto, s’era già visto — trattando (nella 1ª parte) della dislocazione delle tribù d’Israele — che tanto la terminologia ebraica per la struttura della "tribù", quanto l’idea stessa di una grande confederazione delle dodici tribù risale a questo periodo, e si ispirava al modello delle grandi confederazioni tribali arabe del VII-VI secolo. 


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…pagina in fase di completamento…

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[1] L’espressione "età assiale" (Achsenzeit) venne proposta nel 1949 dal filosofo e psichiatra tedesco Karl Jaspers (1883-1969) nell’opera Vom Ursprung und Ziel der Geschichte (Origine e senso della Storia) per indicare il periodo, compreso tra l’800 a.e.v. e il 200 a.e.v., in cui sostanzialmente, giunta al suo massimo sviluppo l’età dei grandi imperi, si afferma una nuova concezione dell’essere umano e del ruolo dell’individuo nella società.
[2] Soltanto la famiglia reale, per motivi di opportunità politica, aveva adottato, in seconda generazione, nomi babilonesi quali Shesh-bassar e Zerubbabel.
[3] Del tipo: Yahu-natannu, Yahu-zabaddu, Yadih-Yama, Zabad-Yama, Tub-Yama e simili, in cui Yama sarebbe una forma di Yawa (Yhwh).
[4] Occupanti abusivi, per la definizione del termine (in un contesto moderno) cfr. wikipedia.
[5] Si veda, ad esempio, il volume: Laurie Elie, Alessandra Grimaldi, Forough Raihani, Gilgamesh l’Epopea del Re di Uruk, L’asino d’oro edizioni (2013); in particolare, per quanto riguarda George Smith, l’appendice con la ricostruzione storica del ritrovamento delle 12 tavolette di argilla su cui è inciso il mito di Gilgamesh, opera di Alessandra Grimaldi.
[6] Espressione che per chiarezza possiamo anche riformulare come "rapporto sessuale finalizzato alla procreazione", giacché l’idea della "riproduzione sessuale" all’epoca dell’esilio doveva esistere già da qualche tempo!
[7] Riappare qui il concetto di "età assiale".
[8] Ne è un esempio il cosiddetto "monumento cruciforme" che intendeva attribuire al re accadico Man-ishtusu certi privilegi e donazioni al tempio di Shamash di Sippar.
[9] Il motivo "Gog e Magog" avrà poi lunga vita, passando per la rielaborazione nel Medioevo islamico e cristiano, e darà luogo a famose espressioni letterarie (come quella del muro di ferro che Alessandro Magno avrebbe fatto costruire sul Caucaso per contenere la minaccia all’esterno del mondo "civile"); tuttavia è sufficiente fare una ricerca su internet per constatare quanto seguito esso abbia ancora al giorno d’oggi.

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